Alitalia: take off
L’8 marzo del 1996 l’allora Presidente dell’Alitalia Renato Riverso spalancò il portellone, andandosene con uno sbuffo: “Impossibile governare una compagnia aerea i cui piloti lasciano a terra i passeggeri aventi diritto a favore di amici e parenti!” Più o meno questo, in sintesi, l’addio del vertice dell’azienda, in riferimento ad un episodio realmente accaduto l’anno precedente, durante le vacanze natalizie, sulla rotta Miami-Milano.
In un’azienda seria (e privata), a quei piloti sarebbe stato notificato il foglio di via al loro arrivo a Malpensa. In un’azienda a capitale statale, invece, come l’Alitalia di allora e dell’altro ieri, tutto al più un danno di immagine (e che danno) a discapito di tutti e di nessuno. Ne scrisse l’”Economist”, infatti, una settimana dopo le dimissioni di Riverso, in un articolo che mise impietosamente a nudo lo sfascio in itinere della nostra compagnia di bandiera, per un’agonia che si è trascinata fino ai giorni nostri. Con tutte le conseguenze del caso. Fino alla sua scomparsa, per una (auspicata) resurrezione.Ma quali le tappe storiche di una marcia forzata destinata da quel momento allo sfascio, secondo il celebre settimanale inglese? L’incapacità di usare razionalmente e, quindi, di sfruttare commercialmente Fiumicino come snodo naturale per i Paesi del Medio Oriente e per l’Africa, così come l’ampia rete di rotte internazionali all’interno dei ricchi mercati europei a portata di mano; l’ostruzionismo (leggi ricatto) di piloti e dipendenti, forti di appoggi sindacali immotivati per una difesa dei privilegi garantiti dalla certezza del denaro statale; una visione corta di quel che accadeva intorno, atteso che la stessa utenza italiana cominciava a defluire verso la concorrenza europea per i voli transcontinentali.Quando due anni prima delle proprie dimissioni il duo Riverso-Schisano si vide costretto a programmare il taglio di almeno un quinto del personale e la rinuncia alle rotte in perdita, rischiò di essere letteralmente menato. La compagnia finanziaria di Stato dell’Alitalia – l’IRI all’epoca presieduta da Romano Prodi – bloccò il piano di ristrutturazione dei due grossi manager italiani provenienti rispettivamente dalla IBM e dalla Texas Instrument. E, con il sostegno di un pusillanime governo in carica succube dei ricatti dei piloti sostenuti dalla triade sindacale per eccellenza CGIL-CISL-UIL, sconfessò la coppia di formazione americana, ma di origine patria, liquidandola. Roberto Schisano, di fatto sostituito da un veterano dell’industria statale, Domenico Cempella, finì con il rassegnare le dimissioni nel febbraio 1996. Il mese dopo toccò al Presidente Riverso, la cui poltrona fu occupata da Fausto Cereti, dell’Alenia, altra compagnia aerea statale in sofferenza.
Lo scompenso vistoso tra un capitale sociale bassissimo e passività enormemente superiori non scoraggiarono i governi dell’epoca, che continuarono a finanziare la compagnia in perdita per un declino irreversibile. A tutto vantaggio della concorrenza europea – Air France, Briitish Airways, KLM su tutte – non infettate dai condizionamenti della politica, dei piloti e dei sindacati. E mentre l’Alitalia inseguiva il prestigio dell’immagine, come sarcasticamente denunciò l’’Economist’ divertendosi a menarci legnate, le concorrenti pensavano alla concretezza del profitto. Il resto è storia nota. Volando al ribasso l’Alitalia è finita sul marciapiede, in povertà. Fino a quando qualcuno l’ha raccattata da terra, facendola rialzare. Ad un prezzo altissimo certamente. Ma mai così alto come quello, al ribasso, che l’aveva trasformata nella cenerentola dei cieli dell’Europa e del mondo. Da tempo strimpellano le cornamuse della commiserazione e del rimpianto, della protesta e della critica. Nessuno, però, si volge indietro, agli anni in cui due autentici cervelli nostrani avevano prescritto la cura giusta per una malattia all’epoca non del tutto irreversibile. Perché uno dei malanni della politica è proprio quello di dimenticare ieri, urlando contro l’oggi. Contro il fatto che saranno gli Italiani a pagare, contro il governo del fare a favore del pugno di imprenditori che hanno incassato l’affare, contro questo e contro quello. Alla fine, però, hanno ceduto tutti. Dinanzi ai Riverso o agli Schisano di oggi – che si chiamino Colaninno o Tronchetti Provera – c’è una sola recriminazione da fare. Perché non ieri? Diano una risposta convincente la CGIL di Epifani o gli ultimi due sindacati di categoria che proprio in questi giorni hanno definitivamente ceduto, sottoscrivendo l’accordo. Non ce ne è stato bisogno per la CISL e l’UIL che una mano per la coscienza devono essersela passata, vista la retromarcia fatta dinanzi ad un governo deciso e per nulla disposto ai compromessi. Così come non ce ne è stato bisogno per quei sindacati di categoria che hanno condiviso in tempo la medesima scelta.Riparte ora una piccola ma solida compagnia, alla quale siamo un po’ tutti legati. Per quel minimo prestigio di immagine e di orgoglio nazionale effimero quanto si vuole, ma che tanta serenità ci infonde quando ci imbarchiamo all’interno di un tubo di alluminio tricolore pronto al decollo.