Neoplasia mammaria: la famiglia in rapporto alla malattia
Psicologo e Psicoterapeuta Familiare
Psico-oncologo A.S.Me.
Il cancro rappresenta l’aspetto oscuro e quasi diabolico della vita. Esso rievoca l’idea di distruzione, di dolore incontrollabile e di morte, e, sebbene la sofferenza e la morte siano aspetti importanti della vita, esse tendono ancora ad essere rimosse dalla nostra cultura. Oggi si sente sempre più parlare dei tumori e delle nuove tecnologie per prevenirli e curarli, ma resta, di fatto, un “male” dal quale ci si vuol tenere lontano, del quale si parla solo in riferimento a conoscenti che hanno avuto la “sfortuna” di esserne colpiti. Quando in famiglia arriva una diagnosi di neoplasia mammaria, il processo di reazione della famiglia alla diagnosi dipende da diversi fattori quali età, sesso, e ruolo del paziente all’interno della famiglia, ciclo vitale della famiglia stessa, eventuale presenza di conflitti fra i membri, modalità di espressione delle emozioni, etc. Di fronte ad una esperienza traumatica, come può essere la diagnosi di cancro, ogni persona reagisce secondo le sue caratteristiche di personalità ed ogni tappa dell’iter diagnostico-terapeutico sarà vissuta in modo individuale e dinamico, sia dal punto di vista psico-affettivo, emozionale e cognitivo, sia come riadattamento sul piano comportamentale e relazionale.La diagnosi non colpisce solo la paziente ma l’intero sistema familiare che deve “riequilibrarsi” attivando le proprie risorse, al fine di affrontare il cambiamento nel modo più sereno possibile, mediando, inoltre, tanto col sistema sociale quanto col sistema lavorativo sui quali, inevitabilmente, ci saranno delle ripercussioni (basti pensare alle visite, alla degenza, alla riabilitazione, alle visite di controllo, etc).Solitamente la prima risposta emotiva della paziente, condivisa dai membri della famiglia, è lo stupore (è impossibile sia capitato a me) dal quale si cerca riparo contattando più medici alla ricerca di diagnosi più favorevoli (magari il primo medico si è sbagliato) o quantomeno di una diagnosi che confermi la prima.Accertata l’esistenza della neoplasia mammaria, dallo stupore si passa alla paura, al timore, all’ansia, in parte legate alla preoccupazione in parte al “non conoscere l’avversario” contro cui ci si prepara a combattere.La nostra mente, infatti, ragiona per analogie e connessioni, cerca, cioè, di rapportare ogni “nuova informazione ed esperienza” ad una qualche categoria mentale già presente nella propria esperienza con la realtà esterna (Teoria della Dissonanza Cognitiva). Per far fronte a questa nuova esperienza, la mente cerca quindi di comprenderne le caratteristiche e gli aspetti raccogliendo quante più informazioni possibili sulla patologia tramite amici, conoscenti che l’hanno affrontata, internet e consulti medici vari.All’interno del nucleo familiare e, laddove presente, all’interno della famiglia allargata, ciascuna “mente” incomincia quindi ad “attivarsi” alla ricerca dell’Istituto o dell’Ospedale dove lavorano i “medici migliori” col fine di “dare il proprio contributo” al familiare colpito. “L’attivazione dei singoli componenti della famiglia” tende a creare attorno alla paziente una “rete di sostegno” ed un “contenitore” emotivo per l’ansia e la paura, ma al contempo può alimentare quella “confusione d’informazioni e di idee” nella quale viene solitamente a trovarsi chi per la prima volta deve confrontarsi con la malattia.Se alla donna non viene data l’occasione di esprimere le proprie angosce, infatti, la sua ansia continuerà a crescere anche dopo il ricovero in ospedale, manifestandosi sottoforma di sintomi somatici. Ma anche “confusione” e “dubbi” circa il da farsi può contribuire negativamente all’equilibrio psichico nel quale viene, inevitabilmente, a trovarsi. E’ il caso di quelle famiglie in cui ciascuno vuole dire la sua facendosi “maestro” circa la soluzione, il medico e la struttura migliore dove rivolgersi, finendo col creare “tensioni” e “dubbi” qualora la scelta, influenzata anche dagli stessi fattori familiari ed economici, ricade su un medico piuttosto che sull’altro.Il nucleo familiare, che in una prima fase si era “aperto” alla raccolta di suggerimenti e informazioni inerenti il percorso da intraprendere, ora tende a “chiudersi” attorno alla decisione presa dal paziente e dal suo nucleo familiare ristretto in riferimento al medico cui rivolgersi o alla struttura cui affidarsi (raccolta di energie).E’ qui che ha inizio la “relazione medico-paziente”, è qui che le “aspettative” di successo vengono riposte su di un medico che quasi sempre ancora non si conosce ma che fin da quel momento viene investito del “ruolo di salvatore”.Il “primo contatto” e la “presa incarico della paziente” sono particolari momenti in cui l’aspetto psicologico tende a prevalere sull’aspetto medico. Accogliere la paziente, entrare in relazione con lei ed i suoi familiari, facilitare la comunicazione aiutandola ad esprimere, comprendere e definire il problema, costituiscono le tappe fondanti un buon processo di cura e guarigione.L’obiettivo della prima consulenza oncologica non è certo quello di risolvere il problema dell’utente, ma di costruire una relazione medico-paziente improntata sulla fiducia ancor prima che sulla professionalità. Il medico si pone anzitutto come “essere umano nella relazione”, ascolta con sensibilità e partecipazione cercando di capire cosa stia sperimentando la paziente in quel momento senza lasciar trasparire alcun segno di turbamento anche di fronte ad eventuali rivelazioni “toste” per i primi incontri (possibile indice di una Depressione latente che la malattia fa esplodere). Mantiene un atteggiamento calmo, ponderato, imparziale ponendosi come “modello” delle relazioni umane.Solo avendo costruito una relazione improntata sulla fiducia, il professionista si sarà guadagnato il diritto di prospettare “angolazioni” dalle quali considerare pensieri, opinioni, intenzioni, comportamenti e strategie d’intervento più “adatte” per quella paziente.La consulenza oncologica, quando possibile (figli maturi), va quindi riservata all’intero nucleo familiare della paziente. Ciò riduce il “senso di solitudine” riferito da molte pazienti, contribuendo, nel contempo, a rendere partecipi (quindi responsabili) fin dall’inizio gli altri membri familiari sia per quanto concerne il trattamento che le terapie riabilitative ad esso associate.Nel momento in cui si ha un medico di riferimento, è bene che ciascun membro familiare esprima all’inizio eventuali “dubbi” o “perplessità” in modo da risolverle prima e non durante la presa in carico in cui i “forse” ed i “se” servono solo ad ampliare le già complesse paure della paziente. Non bisogna sottovalutare, infatti, che ciascun familiare cerca sempre e comunque il modo migliore per aiutare la persona amata provando, seppur in modo diverso, le stesse sensazioni d’angoscia ed impotenza della paziente (importanza del sostegno psicologico familiare).Come emerso da numerose ricerche su campo( Lerman e Coll.) l’importanza di un “coinvolgimento attivo” della famiglia e, laddove esistente, di un sostegno psicologico familiare, contribuisce senza dubbio a migliorare l’alleanza col medico e l’equipe medica, ad alleviare tensioni e paure lungo tutto l’arco del trattamento, a facilitare una più rapida riabilitazione sociale e lavorativa della paziente.L’equipe medica e la paziente, in conclusione, non possono che trarre vantaggio nell’assecondare l’innata tendenza dei sistemi ad autoripararsi. Inoltre, includendo la paziente ed il suo sistema familiare nella pianificazione medica, li si “solleva” tanto da quella condizione di “passività” quanto “d’impotenza” in cui la malattia li pone, di ostacolo alla guarigione