Sulla soglia dell’impensabile

Fulvio Sguerso

Le domande fondamentali della filosofia vertono sul pensiero e sull’essere; o meglio sulla  relazione esistente tra il pensiero e l’essere, relazione non altrimenti predicabile se non tramite il linguaggio. Alla domanda: “che cosa è il pensiero?” non è possibile rispondere senza usare il verbo essere seguito da un nome (o da un infinito sostantivato). Ma chi può rispondere a questa domanda se non il pensiero stesso? Quando ci si interroga sul pensiero è come se il pensiero si interrogasse su se stesso. Abbiamo qui un soggetto che si pensa, ponendosi come oggetto di un discorso il cui criterio di verità è dato dal suo stesso oggetto: il pensiero. Che cosa c’è, infatti, fuori, oltre, al di là del pensiero se non un altro pensiero? E da dove ci vengono i pensieri se non dall’essere del pensiero in cui già siamo? Se noi, gettati in un mondo in cui è persino troppo facile perdersi, ci siamo lasciati irretire nel ginepraio dei bisogni, nel labirinto di specchi del “pensiero calcolante”, obliando la nostra origine e la nostra essenza, non incontrassimo (per caso o per destino) un messaggero dell’essere che ci indica la via, non sapremmo nemmeno mai di esserci smarriti. La conversione dal pensiero inautentico al pensiero puro non può che cominciare dalla consapevolezza di esserci smarriti, e di aver dimenticato di porre le domande fondamentali. Tra queste una è indubbiamente: che cosa significa pensare? Was heisst Denken? Titolo dell’opera di Heidegger a cui sembra che intenda rispondere Mario Gennari con questa Filosofia del pensiero (Il Melangolo, 2007). Non sarà infatti per caso che le prime parole del suo saggio ( o “manifesto”) sull’essenza del pensiero siano: “Pensare significa stare nel pensiero ed essere il pensiero”. Stare, cioè abitare come a casa propria, ed essere, cioè identificarsi e vivere nel pensiero. Ma in quale? Non certo in quello strumentale, raziocinante, riflettente, valutativo e, appunto, calcolante dei computer e della tecnica; il pensiero puro di cui ci parla l’autore di questo sottile ma denso opus è “l’essenza più profonda dell’uomo che pensa”. Naturalmente non si può vivere in questa essenza se non pensandola. E tuttavia, benché il proprio dell’uomo sia di essere un animale che pensa, la cognizione di questa proprietà non è immediata: “Se non si sente dentro di sé la necessità onto-antropologica di pensare non si penserà, si sopra-viverà senza pensiero intingendo la vita nel mare del niente e, poi, nel male del nulla. Senza remore o rincrescimenti: non sapendo che si sarebbe potuti vivere pensando, che si avrebbe potuto vivere nel pensiero.” Sembra qui di ascoltare l’eco delle parole  del viandante e ombra di Zarathustra :“Il deserto cresce. Guai a colui che favorisce i deserti!”, su cui insiste l’ultimo Heidegger, per il quale noi dobbiamo ancora imparare a pensare. L’essere a cui pensano gli “ultimi uomini” è ancora quello della metafisica classica; cioè l’essere inteso come semplice presenza, come una cosa  che sta sopra, o dentro, o sotto le cose con cui abbiamo a che fare nell’esperienza quotidiana e della cui ovvietà non ha senso dubitare. Ma accettare l’essere come semplice presenza significa rimanere alla superficie della vita, e lasciarsi condizionare dal “si dice” invece di arrischiarsi oltre i fenomeni verso il noumeno, oltre la banalità della chiacchiera verso la profondità dell’essenza. Noi ancora non pensiamo, secondo Heidegger,  perché non siamo ancora consapevoli della nostra essenza; come aveva intuito Nietzsche: “L’uomo tradizionale non è ancora entrato nella sua piena essenza, dal momento che questa essenza dell’uomo non è ancora per nulla stabilita, ossia essa non è stata né trovata né resa stabile. Per questa ragione Nietzsche dice: “L’uomo è l’animale non ancora stabilito (festgestellte)”. Dunque l’ultimo uomo, l’uomo tradizionale e razionale, non è ancora giunto alla rappresentazione adeguata di se stesso: “L’uomo è l’animale non ancora stabilito: l’animale razionale non è ancora giunto nel pieno della sua essenza. Ma per poter finalmente stabilire la sua essenza, l’uomo tradizionale deve esser portato oltre se stesso.” Ora, tra questo ultimo uomo ormai tramontato e l’uomo nuovo (super od oltre-uomo) che ancora non arriva, si è aperta una landa, appunto, desertica, una terra di nessuno percorsa da orde barbariche intente a depredare quel che resta della civiltà; è il luogo inospitale in cui oggi ci troviamo. E’ questa la fine e il fine dell’avventura umana? L’oblio di ciò che veramente siamo, della nostra essenza umana che può vivere soltanto nel puro pensiero, rimarrà l’ultima parola della nostra storia? Il nostro destino sarà il nulla (anzi “il male del nulla”)? La visione di Gennari è decisamente, radicalmente antinichilistica: ”C’è un punto raggiunto il quale il pensiero è nella sua pienezza. Quel punto generativo per essere conseguito e mantenuto richiede stenia ed equilibrio. Quel punto dista dalla superficie sferica della vita. Risalire (o scendere), per gli infiniti raggi, dalla superficie al centro del pensare corrisponde al temibile abbandono. Strapparsi alla realtà! Questa è una possibilità per pensare. I raggi della sfera, che vanno dalla superficie della vita al centro dell’essenza pensante dell’uomo, sono infiniti. E, così, infinite sono le possibilità di raggiungere il proprio centro: il pensiero puro.” Tuttavia si tratta pur sempre di possibilità, quindi di scelte e di assunzione di responsabilità che competono all’uomo, alla sua volontà e anche al suo coraggio: nessuno può decidere per noi se, come e quando intraprendere la discesa agli inferi e l’ascesa al paradiso della vita redenta dalla purezza del pensiero. Questa Filosofia del pensiero si configura anche come una apologia della libertà originaria e insopprimibile dell’uomo in quanto essere pensante: il pensiero rende liberi quando è puro, autentico, vero; purezza, autenticità, verità che possono, quindi debbono essere vissute in concreto nel mondo in cui siamo e in cui interagiamo con il nostro prossimo. Certo il mondo non è quel giardino delle delizie sognato dalla mitologia, ma se abita il proprio pensiero “l’uomo può raggiungere una condizione di armonia pervenendo alla pienezza di se stesso, quindi a pensare. L’armonia diventa l’ambiente del pensiero, sicché il pensiero può pensare in modo latamente armonioso”. Il vero pensiero è anche armonia tra soma e psiche, materia e forma, desiderio e oggetto, gioia e tristezza….Armonia, sì, quindi anche movimento, svolgimento, divenire. Ma c’è un limite al pensiero? “Il pensiero del pensiero è l’ultima e la prima trasformazione: ciò che può essere nominato ‘soglia dell’impensabile’”. Che cose c’è, dunque, oltre quella soglia, oltre i mari estremi dell’essere, noi non sappiamo. Certo verrà il momento in cui il linguaggio si dovrà arrendere di fronte all’Innominabile, all’Inesprimibile, all’impensabile. Allora, sulla soglia dell’impensabile, ci fermeremo a pensare.