Appunti per un’etica della speranza operante
Fulvio Sguerso
Che cosa significa parlare di etica oggi, ormai dentro un Terzo Millennio che si è (o abbiamo) inaugurato sotto l’insegna della guerra preventiva e del terrorismo globale? Inoltre: è ancora possibile parlare di etica al singolare o non è piuttosto il caso di prendere atto del tramonto definitivo dei Principia Ethica universalmente ed eternamente validi, fondati su di una “natura umana” anch’essa data una volta per sempre, immutabile nei suoi tratti fondamentali e condannata dalla sua “natura”, appunto, (o da Dio) a un’ eterna guerra intestina tra bene e male, cioè tra impulsi buoni e cattivi, passioni egoistiche e sentimenti di amicizia e di gratitudine per gli “altri”, aggressività e simpatia umana, insomma tra amore e odio per i propri simili, e quindi parlare di etiche al plurale? Certo è che, in un caso come nell’altro, il discorso sull’etica o sulle etiche contemporanee (in cui non per niente prevale l’etica del discorso o dell’argomentazione) non può rimuovere la trasformazione in atto che la stessa antica nozione di “natura” sta subendo a causa del continuo “progresso” tecnologico, e in cui la stessa vita umana cambia i suoi aspetti e le sue abitudini pressoché sotto i nostri occhi, non più di anno in anno, ma di giorno in giorno e quasi di ora in ora. In questo quadro è più che mai urgente quella che un tempo si chiamava “presa di coscienza” e che oggi (come ieri) implica una scelta radicale a favore o contro l’umanità non più solo presente ma anche futura, e persino a favore o contro l’umanità passata; incombe infatti il pericolo di un uso criminale dell’enorme potere tecnologico e militare accumulato nelle mani delle classi dominanti e dei signori della guerra. Hans Jonas , nel suo Principio responsabilità, ha parlato di “euristica della paura” per far comprendere che è necessario rendersi consapevoli del pericolo se si vuol correre ai ripari e approntare le difese finché si è in tempo: “Finché il pericolo è sconosciuto, non si sa cosa ci sia da salvaguardare e perché. Il saperlo scaturisce dalla percezione di ciò che bisogna evitare”. Quindi la prima domanda da porsi è: che cosa dobbiamo evitare? E la seconda: possiamo evitarlo? Ora quello che dobbiamo evitare, in quanto esseri umani responsabili, è né più né meno che la distruzione dell’umanità da parte dell’uomo medesimo (o di alcuni potenti irresponsabili). Possiamo evitarlo? Lo possiamo se siamo convinti che l’essere debba prevalere sul nulla, che è come dire che la vita debba vincere sulla morte. L’essere come vita è dunque un bene in sé, e in quanto tale va salvaguardato, affermato e difeso. Contro che cosa? Contro il male della morte e del nulla. Se dunque possiamo evitare il male, dobbiamo evitarlo. Ma davvero possiamo evitarlo? Se perdessimo anche la speranza di vincere il male saremmo veramente perduti. “L’importante è imparare a sperare”, afferma Ernst Bloch nel suo Principio speranza. Che cos’è la speranza per Bloch? E’ un affetto espansivo che porta gli uomini ad aprirsi gli uni agli altri invece che a chiudersi in sé stessi, è un impulso che li spinge a migliorare, a progettare un futuro più umano, anzi, finalmente umano, dal momento che l’uomo non si è ancora riappropriato di sé stesso e non ha ancora espresso tutte le sue potenzialità. Tra queste, fondamentale, quella di anticipare, sia pure nell’immaginazione e nel desiderio, una realtà non ancora presente ma che si intuisce come quella propriamente umana. In questa prospettiva, la stessa materia non è concepita inerte e sorda e puramente passiva, ma anch’essa in divenire, non meccanica ma dinamica forza vitale, espansiva e produttrice di forme. Anche la materia, quindi, secondo Bloch, partecipa all’ontologia del non-ancora. Ma qual è la meta finale di questo processo storico e cosmico? La terra promessa sempre sognata e non ancora mai posseduta è l’unità dell’uomo con sé stesso, con i suoi simili e con la natura. Si tratta di un processo aperto a cui noi tutti possiamo, e quindi dobbiamo, partecipare, ognuno con la sua propria fisionomia, libertà e creatività. Utopia? Certo, utopia. Ma senza utopia che cosa rimarrebbe da sperare agli uomini e alle donne? Questo discorso, o meglio, dialogo che si svolge ininterrottamente almeno dai tempi di Socrate ai nostri giorni è anche quello che mantiene viva la speranza in un’umanità finalmente umana.
Caro Fulvio, leggendo il tuo articolo, mi viene in mente il ruolo che la consapevolezza della morte gioca in ambito dell’eziologia della psicopatologia della nostra vita, e, molto probabilmente anche nelle manifestazioni psicosomatiche. Noi abbiamo bisogno dell’utopia, senza saremmo solo uomini. Vuoi che i nostri simili egocentrati ed egogentristi lo accettino? La speranza è l’ultima a morire.
Giovanna Rezzoagli
Caro Fulvio,
grazie per il tuo contributo. Io sono un Fisico, non un Filosofo e la mia Etica nasce dalla consapevolezza di dovere essere un esempio vivente (buono o cattivo, non sta a me dirlo) per mio figlio. Non ho quindi una nozione di “Etica” da esperto. Posso però rispondere ad alcuni interrogativi che poni indirettamente: cosa dobbiamo evitare?
a) l’integralismo e il fanatismo religioso (la Storia e il presente insegnano …);
b) l’intolleranza per il diverso;
c) l’inosservanza delle Leggi (certo perfettibili) perché la Legge ha la sua origine nella tutela di chi è più debole;
d) gli “eroi del nostro tempo” che offrono attraverso i “reality” tanto ricercati dall’umanità quadratica media, l’esempio di come stare al mondo senza essere di alcuna utilità per gli altri.
O forse ho confuso “Etica” con “Morale”? Scusami semmai, sono un Fisico e tutto ciò che non è “misurabile” mi ingenera confusione. Se non vogliamo seppellire la speranza, dobbiamo sperare che anche l’uomo sappia progredire in senso etico, come è progredita la Scienza. Tutto sommato non abbiamo più lo “ius primae noctis” e l’Inquisizione (ma quanta sofferenza è costata scrollarsi di dosso queste “istituzioni”.. E’ poco, lo so, ma è già un buon inizio …
Cara Giovanna, la conoscenza autentica dei nostri limiti è anche quella che ci permette di trascenderli. Il nostro limite fondamentale è certamente quello della finitudine e della morte. La quale può essere considerata almeno sotto due aspetti: quello corporeo (la “sora nostra morte corporale” del fraticello di Assisi) e quello spirituale o, per chi non crede nello spirito, etico. C’è stato chi in nome di principi etici come la libertà, la giustizia, l’amore per il prossimo, ha sacrificato la propria vita “corporea”; ponendo alcuni valori più in alto della vita stessa affermiamo la nostra caratteristica più umana. Anche qui, Socrate docet. Con questo non intendo teorizzare un’etica del sacrificio in quanto tale (che sarei il primo a tradire!), ma credo nella necessità di non identificare il bene nell’utile o nell’interesse personale. Ma qui il discorso si complica e magari lo riprenderemo in una prossima puntata.
Caro Salvatore, è vero, i comportamenti umani in relazione agli scopi e ai loro moventi sfuggono all’indagine quantitativa ma non forse al giudizio qualitativo. Purtroppo, come sai, non esiste un metodo “oggettivo” per stabilire il valore di un comportamento piuttosto che di quello opposto, e molto dipende dai valori che noi consideriamo irrinunciabili o “non negoziabili”. E qui si apre il difficile discorso sui valori: relativi o assoluti? Soggettivi o iscritti ab aeterno nei nostri cuori? Stabiliti da Dio o dagli uomini? Modificabili a piacere o intoccabili e fissi come le idee platoniche? Ecco alcuni temi di cui si occupa l’etica in quanto disciplina filosofica che studia appunto l’ethos, cioè il comportamento o il costume umano (o disumano).
Ma avremo modo di riparlarne.
Fulvio Sguerso