La comprensione nelle relazioni interpersonali
“Pochi sono i doni che una persona può fare a un’altra che eguaglino, per ricchezza, il dono della comprensione” (Rollo May, “L’arte del Counseling” pag.79, edizioni Astrolabio).Comprensione: etimologicamente deriva dal latino tardo comprehensio, questo termine ha il significato di facoltà del comprendere, azione del racchiudere, tolleranza. Nel nostro quotidiano la comprensione la sperimentiamo e la applichiamo assai raramente. A livello emozionale tutti abbiamo una ideazione del significato pragmatico di questa particolare attitudine, ma spesso si confonde con compassione o, peggio, con commiserazione. La psicologia comprensiva, definita da K. Jaspers, è fondata sulla distinzione tra comprendere e spiegare: la spiegazione implica una visione di un particolare fenomeno psichico nelle sue manifestazioni oggettivabili, la comprensione impiega la capacità di saper guardare al di dentro dell’Altro. La comprensione si accosta al soggetto non per tradurlo in uno schema anticipato, ma per cogliere le strutture di significato che emergono dal suo versante e non dal versante di chi osserva. A ciascuno di noi sarà capitato di sentirsi compreso o incompreso, fa parte delle esperienze che ci accomunano. Pertanto sappiamo che la comprensione non è data per scontata nei rapporti interpersonale, a qualunque livello. Per coloro i quali esercitano professioni nelle quali è previsto il rapporto con altre persone è fondamentale potenziare la capacità di comprensione. Nell’esercizio della professione del Counselor la comprensione deve necessariamente coniugarsi con la capacità di praticare il non giudizio. Ma se per il Counselor è un dovere sancito anche a livello deontologico, non appare troppo azzardato ipotizzare che egli trasfonda le sue peculiarità professionali anche nei rapporti interpersonali e privati. Utopisticamente mi pongo spesso la prospettiva di un mondo in cui la comprensione autentica, non modulata da necessità narcisistiche o di maniera, possa essere molto più diffusa. Il non giudizio è molto complesso da porre in essere, perché di fatto tutti tendiamo a giudicare tutto e tutti. E’ un modo per affermare il proprio se, differenziandosi dagli altri. Ma quanto male si può ingenerare? Basti pensare ai bimbi delle scuole primarie, un giorno uno di loro arriva con gli occhiali e subito diventa “Quattrocchi”. E tra gli adulti? Si giudica tutto, dal come ci si veste al come si vive. Ecco perché la comprensione è un dono, per chi la riceve certo, ma anche per chi la applica e la promuove. Eraclito sosteneva “non ci si bagna due volte nello stesso fiume”, non solo perché l’acqua del fiume è diversa, ma anche perché noi stessi saremo cambiati da una volta all’altra. Grande è il dono che riceverà colui che non sarà giudicato, ricco sarà colui che comprenderà senza giudicare.
NOLITE IUDICARE è anche un preciso comandamento evangelico. Certo la pratica del non giudizio è cosa rara e difficile nella vita quotidiana, e tuttavia non sarebbe male, come dici giustamente, traferirla dall’ambito strettamente professionale del counseling a quello dei nostri rapporti consueti con il prossimo. E tuttavia anche se noi sospendiamo il nostro giudizio continuiamo a essere giudicati dagli altri, bene o male o così così, su che basi e con quali criteri non ci è dato sapere. A volte nemmeno quando lo chiediamo esplicitamente. Spesso veniamo giudicati in base a sensazioni, suggestioni, ipotesi e illazioni. Proprio quello che dovremmo evitare anzitutto professionalmente, e poi nella nostra vita di relazione. Quando c’è relazione. Il resto è silenzio.
Fulvio Sguerso