Un terribile amore per la guerra
Uno degli effetti perversi della globalizzazione riscontrabile in tempo reale è la trasformazione immediata di parole incaute, di gesti discutibili, di esibizioni indecorose, di battute più o meno meditate e felici, di voci dal sen fuggite o di calcolati vilipendi profferiti in televisione, o riportati dai giornali, in vere e proprie armi mediatiche da usare nella lotta politica e nei conflitti di potere dagli apparati di guerra degli Stati-canaglia o dalle canaglie di Stato di tutto il mondo. Se basta così poco – ma dipende dai punti di vista – per dare fuoco alle polveri, significa che il mondo assomiglia sempre più a una polveriera. Come si è arrivati a questo punto? Non mancano fior di studi e di analisi circa la condizione di guerra permanente in cui ormai ci troviamo (basti citare i testi di Chomsky, di Walzer, di Baudrillard, di Girard, di Negri e Hardt, ecc.); ma c’è un libro che, a mio parere, merita di essere letto e discusso più di altri perché pone questioni di fondo non facilmente eludibili: è Un terribile amore per la guerra (Adelphi, 2005) dello psicologo junghiano James Hillman, il quale si chiede se, per caso, non abbiano ragione quei filosofi che, come Eraclito, Hobbes ed Emmanuel Lévinas, pongono la guerra tra gli elementi primordiali dell’essere in generale e dell’essere umano in particolare. Non è una questione da prendere a gabbo, perché se la guerra “è una componente primordiale dell’essere, allora genera la struttura stessa dell’esistenza e del nostro pensiero su di essa: le nostre idee di universo, di religione, di etica; il tipo di pensiero alla base della logica aristotelica degli opposti, delle antinomie kantiane, della selezione naturale di Darwin, della lotta di classe marxiana e persino della freudiana rimozione dell’Es da parte dell’Io e del Super-io. Noi pensiamo secondo la categoria della guerra, ci sentiamo in dissidio con noi stessi e senza rendercene conto siamo convinti che la predazione, la difesa del territorio, la conquista e la battaglia interminabile di forze opposte siano le leggi fondamentali dell’esistenza.” E’ evidente che, se così stanno le cose, tutti i nobili sforzi volti alla pace, tutti gli appelli alla fratellanza e al dialogo sono destinati a cadere nel vuoto. Ora Hillman non intende rassegnarsi all’ineluttabilità della guerra, però è convinto che gli slogan, le deprecazioni e le prediche pacifiste lasciano il tempo che trovano perché, appunto, non vanno alla radice del fenomeno; d’altra parte non si può andare alla radice, non si può comprendere l’orrore della guerra sulla base delle formule e degli schemi correnti: la sua esperienza di terapeuta della psiche gli ha insegnato che, per comprendere una patologia del comportamento, è necessario, nella prima fase della cura, mettersi dalla parte del paziente, cioè “patire”, sentire con lui il peso della sua malattia, vedere, almeno per un momento, il mondo dal suo punto di vista. Ma la guerra è percepita come una malattia? Sembrerebbe di no se, malgrado i discorsi di rito, i governi e (ahimè) le chiese la accettano se non altro come “ultima ratio”. Sotto questo aspetto si direbbe quasi una cura, dolorosa, certo, ma in fin dei conti efficace. E una sua efficacia la guerra deve proprio possederla se non si è ancora riusciti a relegarla nel museo degli errori e degli orrori della storia umana (o disumana). Il fatto è, sostiene Hillman, che la guerra ha sempre esercitato un fascino e un’attrattiva pressoché irresistibile, addirittura più forte della pulsione erotica. Per questo è impossibile comprenderla con gli strumenti cognitivi della ragione storica o scientifica, quella che, per spiegare i fenomeni, ritiene sufficiente risalire alle cause che li hanno prodotti. Ma seguiamo il suo discorso: “Come psicologo, mi sono reso conto ben presto dell’impossibilità di spiegare il comportamento dei miei pazienti o di alcun altro, compreso il mio…..Più avanti scoprii che quella dicotomia che mi sconcertava nella pratica – da un lato il metodo scientifico per spiegare i fenomeni, dall’altro l’approccio psicologico per comprenderli – era già stata denunciata da Nietzsche e da Dilthey fino a Husserl…..Ma il padre di tutti fu quel genio napoletano di Giambattista Vico, il quale, ribellandosi alle insoddisfacenti spiegazioni delle vicende umane fondate sul modo di pensare di Newton e di Descartes, inventò una ‘scienza nuova’……” Scienza che, come la psicologia analitica junghiana, ricerca gli archetipi soggiacenti alle azioni, ai comportamenti, alle fantasie individuali e collettive. La guerra, quindi, più che con la storia, la sociologia o l’economia, si spiega con la mitologia; la quale ci racconta che sui campi di battaglia non è presente solo il dio della guerra, ma vi opera anche la dea dell’amore e della bellezza: nella mitologia classica Marte è unito a Venere, e sui campi di battaglia si soffre e si gioisce come in nessun altro campo. Istruttivo a questo riguardo è il capitolo dedicato alla sublimità della guerra. Non per niente il poema che è all’origine della civiltà occidentale è l’Iliade, dove la morte e la bellezza, dice Hillman, si fondono in un’unica visione. Ed è questa visione che fa pronunciare al generale Patton, nel film omonimo, mentre contempla il terreno sconvolto e insanguinato dalla battaglia, la frase con cui si apre il libro: “Come amo tutto questo. Che Dio mi aiuti, lo amo più della mia vita.” E’ chiaro che un sentimento di questo genere non può essere compreso secondo gli schemi politicamente corretti, ma che bisogna entrare, appunto, nella folle mentalità del generale, nel suo terribile amore per la guerra, per combatterla non più dall’esterno ma dall’interno. E per questo dobbiamo anche affrontare l’arduo argomento del quarto e ultimo capitolo (dopo “La guerra è normale”, “La guerra è inumana”, “La guerra è sublime”) il cui titolo non dice, come ci si potrebbe aspettare: “La guerra è religione”, ma addirittura “La religione è guerra”. Come si spiega? Qui Hillman distingue nettamente tra mitologia e religione: “Benché lungo tutte queste pagine si nomini un dio, Marte o Ares, tale dio rimane la personificazione mitologica della forza archetipica della guerra e di una serie di atteggiamenti e di comportamenti appunto marziali. Non è il dio di una religione. Non ha una Chiesa, non ha una comunità di devoti, non ha un clero, un testo sacro, una teologia. Soprattutto non pretende una fede”. Ecco il punto: nelle religioni “del libro” un dio personale parla a un essere umano storico in un preciso momento e in un preciso luogo, e il fedele è tenuto a credere nella verità rivelata, alla parola, appunto, del dio che parla. La religione, dice Hillman, legge il racconto della rivelazione in maniera codificata e letterale (su questo ci sarebbe da discutere), i miti chiedono invece alla psiche di inventare e di elaborare congetture, non di credere. Il passaggio dalla fede in un dio unico alla fedeltà e all’obbedienza “cieca, pronta e assoluta” al comandante supremo dell’esercito, che naturalmente combatte in nome di Dio (non si parla forse nell’Antico Testamento del “Dio degli eserciti”?), avviene quasi da sé. Certo qui la religione è considerata nel suo aspetto psicologico e come formidabile strumento di persuasione; strumento ben noto ai principi, ai re e ai caudillos di ogni specie. Che faremo dunque? Ci arrenderemo a Marte? Di sicuro ci arrenderemo, secondo Hillman, se non saremo presi da un amore più forte di quello del generale Patton.