Inter 5, Italia 0

 Michele Ingenito

Ma che gusto c’è! L’Inter(nazionale) va a Genova e infila (sì, infila, come un sarto al cliente) un ‘cappotto’ alla squadra  di casa. Bene, bravi. E allora? Sugli scudi gli inter(nazionali) di Moratti? Manco per idea. Il perché è semplice. Quando, nello sport, comandano i soldi, non è più sport. E’ un campionato di calcio italiano? E allora si valorizzino i calciatori italiani. Ecco, già le sentiamo. Milioni di parolacce sibilare nelle nostre orecchie. Da parte di chi ha idee grandi, naturalmente. E, soprattutto, tasche gonfie. Di soldi. Coloro che, piano piano, anno dopo anno, passando dagli oriundi, prima, e dagli stranieri, poi, hanno trasformato lo sport più bello del mondo (per chi lo ha praticato e lo pratica almeno) in un grande circo. Un circo dove gli artisti più bravi vengono pagati di più, senza badare alla nazionalità. Perché quando gli spazi della seduzione giovanile vanno oltre frontiera, non è più sport, autentico sport. Purtroppo, il mercato del denaro non ha più confini e lo spettacolo diventa affascinante oltre ogni descrizione. Filosofia spicciola, certo. Ma sufficiente a dare (e darsi) ragione. A chi e da parte di chi, menando il can per l’aia, convince il vasto popolo di tifosi e appassionati che il futuro è tutto lì. Nella costruzione di squadre con i calciatori più forti esistenti sul mercato mondiale. Squadre migliori, stadi più grandi, giri impressionanti e strabocchevoli di denaro che rendono felici i tanti tycoon del business. Altro che sport, dunque! Ma va bene così. Per loro. Perché, da questo grande business ci guadagnano tutti. Tutti gli addetti ai lavori. Presidenti di società, allenatori, calciatori, procuratori, pubblicità e relativi prodotti in commercio, giornalisti, media, il vasto mondo, insomma, che agisce e opera dietro le quinte. Basta avere i soldi. Così che i Moratti di turno possano comprarsi il meglio del mondo e mandarlo in campo. Ovvio, poi, che il meglio del mondo (dieci inter-nazionali su undici, (di solito all’Inter/nazionale, undici su undici) rifila un ‘cappotto’ a dieci italiani su undici. Perché questa è la squadra schierata in campo dal tecnico del Genoa Gasperrini (un solo straniero, lo spagnolo Zapater).La scoppola è stata esagerata, tenuto conto del valore potenziale dei grifoni genovesi. Una giornata storta, del resto, capita a chiunque. Nonostante ciò, più che per la scala reale mourihana, abbiamo provato simpatia per i rossoblu. In fondo, con pochi soldi e con tanti ragazzi dello stivale a fare squadra, ci sta bene anche la sconfitta clamorosa. Valorizzare il nostro vivaio è da preferirsi. Forse è giunta l’ora che le federazioni dei vari paesi pongano un freno a questa baldoria del denaro. A chi paga di più per avere il meglio. Perché, pagando pagando, le nuove generazioni di sportivi e, quindi, di giovani naturalmente proiettati verso lo sport (il calcio in particolare), smettano di ragionare in termini di interesse. Crescendo con falsi miti che soffocano loro, le loro famiglie, le loro menti. Perché, dietro il palcoscenico o all’esterno della grande tenda del circo, tra roulotte e gabbie di animali a riposo, intere generazioni di ragazzi cresciuti e delusi o, meglio, traditi dal mito odioso e irraggiungibile di un mondo che a molti promette e che a pochi concede, si ritrovano quasi sempre in mutande. Troppo tardi per ricominciare. A studiare, a creare i presupposti di un futuro meno ricco, ma più autentico e gratificante. Quanti ce ne sono, purtroppo, di questi giovani distrutti dalle speranze del mito, del mito del calcio. Sfruttati, illusi, bistrattati da procuratori senza scrupoli, venduti e svenduti tra squadre e squadrette, sempre pronti (a dire altrui) a fare il salto di qualità. Per ritrovarsi puntualmente in mezzo ad una strada, senza arte né parte. Per una filosofia di vita assunta falsa, per colpa dei media, per colpa di una visione materialistica che li divora incollandoli alla TV sin da piccoli, facendo sì che si introino i miti non meno falsi del facile successo. Quello prodotto dai piedi. Si abbassino i toni, allora. Si rivedano i criteri della partecipazione attiva nel mondo del calcio. Non siamo razzisti, ci mancherebbe. Qualche campione d’oltre Alpe o d’oltre oceano ci sta benissimo. Con lo spirito di insegnare ai nostri ragazzi. Come accadeva nella seconda metà del secolo scorso. Tra un Jepson e un Hamrin, un Suarez e un Falcao, i quali fecero scuola con la loro classe ai meno esperti colleghi di Napoli o Fiorentina, Inter o Roma. E così via. Ma si smetta di mandare in campo undici stranieri, allenatore incluso. Strapagati solo perché rappresentano il meglio. Mentre i potenziali campioni in erba fatti in casa bivaccano a bordo campo, quasi a ‘rubare’ il mestiere ai propri eroi.Visto come va il mondo, vista l’immagine che ci bombardano quotidianamente i media a favore dell’arrivismo, del profitto, del successo a tutti i costi, si ingrani una volta per tutte la retromarcia. In fondo, se esiste, avrà pure una funzione. Protettiva al momento giusto. Tre stranieri per squadra, ad esempio. Ecco. Potrebbero bastare. Concediamogli anche l’allenatore, tranne che per la nazionale. E fermiamoci qua. Allora sì che potremo senza enfasi esclamare: “Vinca il migliore!”Non coltiviamo la dietrologia nei confronti di un mondo che cammina, supera barriere e confini, si internazionalizza. Va bene, va benissimo così. Ma non quando questo processo invade gli spazi di una giovinezza spesnierata. Quelli che formano nella personalità e nel carattere. Per giovani e giovanissimi che d’improvviso si ritrovano, loro malgrado, dinanzi al dilemma che pone loro la più ovvia e, al tempo stesso, la più pericolosa delle domande poste al proprio sé. “Faccio calcio per passione, per una espressione autentica di me?” “O per diventare ricco, tanto ricco? E presto, molto presto?” Alterando, conseguentemente, temperamento e modalità di comportamento, pur di conseguire quegli obiettivi. E, soprattutto, assumendo una visione (distorta) della vita, dei suoi valori, del loro conseguimento. Viva il Genoa, allora, e tutti i suoi ragazzi (italiani), per avere indossato con dignità il ‘cappotto’. Ma, soprattutto, viva i suoi dirigenti per una politica sportiva a cui dovrebbero ispirarsi anche le cosiddette grandi squadre. L’integrazione non avviene per denaro. Quello è un altro discorso. Sul quale bisogna meditare a fondo. Senza urlare, e con profondo senso di responsabilità. Perché il meglio è dappertutto. Così come il peggio. Per assimilare il primo ed escludere il secondo bisogna sapere governare e sapere decidere. Un compito magari ingrato dati i tempi, che spetta ad altri, decisamente ad altri.

 

 

 

 

 

 

Un pensiero su “Inter 5, Italia 0

  1. lascia stare ti prego.Quando l’inter(nazionale)come la definisci tu perde tutti contro questa squadra, adesso che le cose vanno benissimo ci fai anche un articolo.anche con 11 extracomunitari basta che vinciamo.FORZA INTER SEMPRE.

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