Cucchi. Morte bigotta o allucinata?
Michele Ingenito
Come accade nei paesi civili, sarà la giustizia, alla fine, a sentenziare la verità sulla vicenda di Stefano Cucchi. Ma le premesse relative agli eventi ci fanno dubitare, talvolta, di vivere in un paese civile. Ai responsabili del massacro – presunto quanto si vuole fino a sentenza definitiva, ma pur sempre massacro – vorremmo chiedere in virtù di quale principio o sollecitazione o semplice perfidia hanno ritenuto – gli uni, alcuni medici romani incaricati di fornire cure immediate al giovane drogato, e, gli altri – tre guardie carcerarie assegnate alla sua custodia – di dovere accelerare a modo proprio l’iter della giustizia. Sostituendosi alla medesima da bruti, in maniera per giunta sommaria.Forse, nessuno riuscirà mai ad acclarare fino in fondo i particolari di un episodio di fatto criminale. Cioè, gli eventi che hanno preceduto e accompagnato le varie fasi del pestaggio. Atti che poco o nulla hanno da invidiare a quello che, nei giorni scorsi, ha visto morire di botte un imprenditore italiano per colpa di tre sciagurati delinquenti rumeni. E, ancora. Non ci convince affatto l’esigenza di una seconda autopsia sul corpo del povero Cucchi. Il quale avrebbe dovuto pagare il proprio debito alla giustizia in maniera proporzionalmente adeguata a propri reati. Non con la pena di morte, ‘emessa’ ed ‘eseguita’ istintivamente da un ‘tribunale’ non autorizzato. Almeno nel nostro paese. Sono molti a chiedersi, infatti, se i medici legali incaricati del primo esame autoptico abbiano approfondito, come loro dovere, le effettive cause della morte. Magari sezionando il cranio della vittima o le vertebre o quanto altro. Perché, se tutto ciò non è avvenuto, diventano legittimi i sospetti della Procura romana, costretta a disporre nuove indagini autoptiche sul corpo del povero Cucchi. Forse nessuno si aspettava l’esistenza di testimoni di lì a poco spuntati. E questo potrebbe avere ‘fregato’ chi ha voluto probabilmente dare una mano alla ‘legge’; cioè, a quella in divisa non autorizzata a fare giustizia sommaria. Diventando, di fatto, complice di un reato non meno grave quale la sottrazione e/o alterazione delle prove o roba del genere. Cosa gravissima che, purtroppo, ricorre molto spesso tra chi, ritenendosi ‘coperto’, non va troppo per il sottile. E già! Perché il presupposto di partenza è sempre lo stesso. Il giudice, in questi casi le Procure della Repubblica, si rimettono automaticamente ai rapporti delle polizie incaricate. Tra le quali qualche pecora zoppa gioca talvolta sporco dietro le quinte, in virtù di compiacenze e complicità su cui sa di potere comunque contare. Tanto i giudici inquirenti non ne saranno mai messi al corrente. Salvo imprevisti. Che, talvolta, come nel caso di Cucchi, vengono fuori. E, allora, sono cavoli. Amari, amarissimi, per chi, comportandosi da mazziere e non da pubblico ufficiale, supera nella gravità del comportamento colui che gli è stato assegnato in custodia. Tutto “sub judice”, naturalmente. Fin quando la verità non sarà accertata nel probabile processo che verrà.
Nei giorni scorsi sono stati affissi nelle strade romane centinaia di manifesti a lutto a firma del defunto. Il quale definiva “bigotti” i suoi carnefici. Perché in morte siamo tutti più bravi. E più generosi. Perfino Stefano Cucchi. Il quale, dall’altro mondo, si è limitato a definire tali coloro che, a suo scrivere, ve lo hanno spedito per un assassinio definito “di stato”.Non aveva letto Kafka, probabilmente, preso com’era dai fumi della droga. E il suo “Processo” del 1914-15, pubblicato postumo dieci anni più tardi. All’interno del quale Joseph K. viene arrestato senza avere commesso alcun reato, condannato a morte senza che i giudici gli abbiano mai rivelato il capo di imputazione e, alla fine, accoltellato come un volgare criminale da due allucinati custodi della legge. Non avere letto quel romanzo non ha, però, impedito a Stefano Cucchi di aggirarsi drammaticamente, nelle sue ultime ore di vita, tra quegli stessi meandri psichici dentro cui si aggiravano gli eroi kafkiani. Eroi di un tempo e di uno spazio mai realmente estinti. E che, come loro, la nostra realtà e la nostra contemporaneità continua tristemente a proporci.