Equilibri sullo sguardo della memoria
L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Walter Benjamin osservava che già alla fine dell’Ottocento le nuove tecniche di riproduzione meccanica delle immagini avevano favorito, tramite la silografia e la litografia, lo sviluppo dell’affiche quale forma innovativa di comunicazione visiva. È un’arte, quella della grafica pubblicitaria che s’afferma quale genere autonomo rispetto alla pittura, che condurrà – e sarà sancito dall’avvento della fotografia – a quel “venir meno” dell’aura dell’opera d’arte nel XX secolo. È in base a questa premessa che si potranno intendere le opere che Giuseppe Casaburi ha realizzato nel corso del 2009, ed oggi raccolte in questa mostra, che svelano la necessità che l’artista ha di confrontarsi con una “permanenza iconica” dell’immagine. In questa serie di pannelli dipinti, egli ha provato a confrontarsi con l’idea di “circolarità” della ripetizione, riproducendo liberamente alcune opere grafiche celebri, utilizzando citazioni provenienti dall’imagerie che guarda alla grande tradizione rappresentata dai maestri dell’affiche (sono riconoscibili, ad esempio, spunti da René Gruau e da Cassandre). Un confronto che trova origine nelle quotidiane sperimentazioni dell’autore quale grafico pubblicitario, che lavora sull’analogia dei colori trasposti nel registro della quadricromia; egli non prova quindi ad imitare il limpido segno dell’Art Nouveau, ma lo traduce in una forma che rivendica alla pittura quelle possibilità linguistiche non inferiori alle altre forme di linguaggio. In altri termini, l’operazione di Casaburi è quella di riportare l’opera grafica di riferimento ad un suo primo momento di “progetto”, ipotizzando il suo apparire quale unica ed irripetibile: nell’immagine che ne risulta, quasi allo stato di maquette, l’autore tenta di ricostruire un momento “utopico”, quando non s’era ancora manifestato quel processo irreversibile del suo “declino”, nell’avvento della fruizione dell’arte fondata sull’osservazione ripetibile all’infinito delle sue riproduzioni. È la metafora di un confronto con una memoria transitoria delle immagini, le quali possono anche dissolversi, sembra dichiarare l’artista, se di queste non sarà possibile provare ad imprimerne una nuova funzione nella forma pittorica, che si offre come corpo sensibile alla “nostalgia”, in un’epoca contrassegnata – osserverebbe ancora Benjamin – dal bisogno di “rendere le cose, spazialmente e umanamente, più vicine“. Si tratta di una pittura che precisa il proprio intento tramite un’elegante stilizzazione, inducendo nel dettato compositivo (nel “portato” del segno e del colore), una sintesi nel motivo che spinge lo sguardo sulla dimensione piana per renderla abitabile dalle immagini; il tentativo di individuare, quindi, le potenzialità ancora non del tutto esplicitate della loro riproducibilità. In questo senso, andrà sottolineato che non c’è nel lavoro di Casaburi alcuna inconsistenza di matrice “citazionista”, neppure un semplice gioco, considerato in chiave sofisticata, sull’Art Nouveau: al contrario si tratta di opere che rivelano, nella propria meditata giustapposizione tra grafica e pittura, una sorta d’inquietudine che rende irrinunciabile la presenza memoriale del modello di riferimento. Nel tessuto di queste opere, infatti, non appare prevalere un segno grafico, ma piuttosto un’impronta pittorica – definita da elementi di diversa provenienza, uniti ad una certa stilizzazione – che trattiene la memoria delle immagini in superfici che a volte imitano la sgranatura del forte ingrandimento fotografico, altre si dispongono ad assecondare un’accensione immaginativa del colore: un colore senza mezze tinte, che ritrova un’esasperazione tonale. Ed è in questo senso che si comprendono anche gli inserti oggettuali, fisicamente concreti, desunti dal repertorio dei supporti elettronici, che spezzano la continuità del testo pittorico; questi inserimenti, dall’effetto essenzialmente dispersivo, provano ad aumentare la densità metaforica delle composizioni, alludendo alla memorizzazione digitale delle immagini. Sono modalità creative, quelle di Casaburi, dove l’autore rivendica, sollevandosi da ogni preoccupazione memoriale che lo sollecita, il rigore della forma quale antidoto ad una certa cultura dell’accumulo, del “molto” che domina indisturbato il nostro presente; l’artista ha imparato a servirsi dell’eleganza, negli accordi cromatici, nella concentrata tensione che organizza la composizione, che definisce esattamente lo spazio tramite una progressiva scansione di piani luminosi, dove si profila l’impenetrabile silenzio che ogni opera porta già inscritto nel proprio destino.