Google condannata, sentenza di civiltà!

Michele Ingenito

Dunque è finita come doveva finire. Con una condanna che dispiace sul piano umano per i tre dirigenti Google, ma che sancisce ancora una volta come l’Italia sia e resti la patria del diritto. Di un diritto che fa scuola nel mondo, checché ne pensino gli anglosassoni.

Il Tribunale penale di Milano, infatti, ha ‘osato’ condannare ieri il colosso dell’informazione mediatica mondiale per avere messo in rete il video di scherno di un ragazzo down da parte del solito pugno di imbecilli chiamati compagni, in più di un caso in libera circolazione in qualche scuola d’Italia. La protesta americana è stata immediata e decisa. Così come la eco nella stampa di mezzo mondo. Non sorprende più di tanto la protesta di ambasciatori (quello italiano a Roma) e dei tutori di fatto degli interessi del potere a stelle e strisce nel mondo. L’etica per loro, il diritto alla privacy, specie da parte dei più deboli e indifesi, deve necessariamente arretrare dinanzi agli interessi materiali. Quelli che, nella fattispecie, si identificano in quel grande motore di ricerca che – onerosamente – affascina e coinvolge tutti noi. Nessuno rinnega il diritto all’informazione e alla relativa massima divulgazione, ci mancherebbe. Quel diritto – il diritto del cosiddetto temutissimo quinto potere – costituisce a sua volta un momento di civiltà e di garanzia della democrazia e degli stati che, come l’America, fanno le guerre per imporla ai paesi che la ignorano, riempiendosi per questo la bocca. A costo di guerre, invasioni, e di tutto quanto ne consegue. Nessuno, però, neppure la superpotenza per eccellenza, ha il diritto di violare la privacy e, più spesso, di diffamare. Nella sentenza di primo grado di Milano è stata esclusa la diffamazione. Ma, non vorremmo sbagliare, a nostro avviso sulla rete internet gestita dal motore di ricerca di Google di notizie diffamatorie ce ne sono molte tuttora in circolazione, spesso pubblicizzate da emeriti farabutti di video e carta stampata, cialtroncelli quasi sempre adulti in cerca di pubblicità, non sapendo come altro emergere se non attraverso il ricatto, la pompa dell’”io sono”, dell’”io ti faccio fare carriera se ti pubblico: a patto che…”, pubblicando effettivamente stronzate di cui pagheranno, sì, ma, nel nostro paese almeno, non più nel coinvolgimento disinteressato e soggettivamente non responsabile dei Google di turno grazie alla consapevole certezza, finora, di una garantita immunità.Con questa coraggiosa sentenza, infatti, dei giudici milanesi, se naturalmente confermata nei successivi gradi di giudizio, la ‘musica’ cambierà. Ed è, forse, proprio in questo che si ‘nasconde’ la preoccupazione giustificata dei massimi dirigenti mondiali di Google e di chi la pensa come loro, strumentalmente o per libera convinzione. La consapevolezza, cioè, di doversi attrezzare a costi altissimi per quei controlli indispensabili e preventivi, prima di buttare nel gran calderone della notizia fai da te il tutto – nel meglio e nel peggio delle verità – delle informazioni del mondo.Altro che rogna. Sarà, invece, un impegno dai costi rilevantissimi, che, almeno in Italia, cambierà alla lettera le regole del gioco.Annusammo l’importanza della vicenda milanese sin dall’estate scorsa (Caso Google, 23.06.2009; Processo Vividown. Google ai ferri…corti, 02.10.2009; Caso Google. La Procura attacca, (02.12.2009). I fatti (vedi la sentenza di ieri) e la stampa, le radio, le televisioni di tutto il mondo (di ieri, di oggi e certamente di domani) ci hanno dato ragione. E’ la notizia del giorno ormai, è la conferma che i ‘rumours’ e quanto seguirà tra dibattiti e aggiornamenti vari rimetteranno in gioco un problema di estrema attualità ed interesse per chi – la gente comune – vuole continuare a godere del diritto e della sua tutela. Ma, soprattutto, di una patria (del diritto per l’appunto), di cui l’Italia, grazie a un pugno di giudici milanesi senza pregiudizi, preparati, colti e, perché no, coraggiosi, rivendica ancora una volta il primato nel mondo.