Carducci e Machiavelli: la continuità storico-letteraria nel processo d’ unificazione nazionale
Definire Giosuè Carducci il cantore se non il “vate” dell’Unità nazionale non è assolutamente cosa avventata (io / vate d’Italia a la stagion più bella, / in grige chiome / oggi ti canto); tanto meno potrebbe risultare aleatorio studiare buona parte dell’iter storico-politico che condusse all’unificazione nazionale italiana attraverso il pensiero e gli scritti del poeta lucchese. Ora repubblicano o giacobino, ora monarchico; garibaldino esaltò la regina, repubblicano divenne senatore del regno. Sulla versatilità politico-ideologica dello scrittore (dal Rapisardi definito, nel 1878, “di gonne regali umil lecchino”) è stato scritto già molto e sono recenti alcune interpretazioni fondamentali riguardanti la sua “posizione” politica: da quella dell’Alatri tesa ad evidenziare un giacobinismo violentemente repubblicano nel periodo dei Giambi ed Epodi, a quella del Russo, che capovolge il repubblicanesimo di fondo in una concezione monarchico-costituzionale davvero costante; da quella di Chabod (Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896) a quella del Vinciguerra (Carducci uomo politico) e del Binni (Carducci politico). Senza contare, quindi, l’importanza fondamentale che, nella formazione del pensiero politico del poeta, assunse la Rivoluzione francese, rievocata e celebrata, nel Ҫa ira, attraverso la lezione del Blanc, del Carlyle e del Michelet: dodici sonetti (più una parte prosastica) che riveleranno un Carducci inopinatamente “giacobino” e, per questo, bersaglio di numerose critiche e polemiche da parte dei moderati. Eppure – va detto – il pensiero politico carducciano ritrova il suo elemento fondamentale nel classicismo, nell’ottica dell’ormai evidente contrasto tra il degrado socio-politico del periodo unitario e l’ideale eroico e “storico” proprio del poeta. Piero Capponi, Dante «primo grande accusatore del Medioevo», Ferrucci e, soprattutto, l’antesignano della teoria della Ragion di Stato, Niccolò Machiavelli, diventano, in tal senso, i personaggi emblematici del Meminisse horret [Giambi ed Epodi]: le campane che nel 1494 risuonarono per chiamare il popolo a combattere per la libertà, contro le minacce di Carlo VIII, al tempo del Carducci risuonano, metaforicamente, per annunziare il canto del miserere da parte di un popolo inerme e indifeso; Dante è un “cicerone”, Machiavelli un “ruffiano” pronto a vendere la madre (l’Italia) nuda “su l’urna di Scipio”; dal palazzo della Signoria, a Firenze, (sede dal 1865 del governo e del Parlamento italiani), proviene «un lezzo nefando d’avello e di fogna», espressione simbolica tesa ad evidenziare il disprezzo e la ripugnanza che lo scrittore nutrì costantemente nei confronti dei “politici” del tempo. Si considerino, quindi, i versi de Le nozze del mare [Giambi…]: è possibile scorgere, ancora una volta, l’amaro confronto tra le glorie antiche d’Italia e la decadenza morale e civile del presente; mentre La consulta araldica [Giambi…] assurge a vera e propria invettiva contro la commissione istituita nell’ottobre del 1869 per “dar parere al governo in materia di titoli gentilizi, stemmi ed altre pubbliche onorificenze”. Un vero e proprio pretesto perché il poeta sferri un deciso attacco contro la classe nobiliare, per declamare e celebrare, invece, le antiche libertà comunali sostenute dalle città italiane nella lotta con gli imperatori tedeschi. La conclusione è davvero significativa: «[…] la Libertà tocca il tamburo, e insieme / Dileguan medio evo e carneval». Quasi gli stessi motivi si riscontrano nel Canto dell’Italia che va in Campidoglio [Giambi…], lì dove la delusione del Carducci per la situazione socio-politica italiana e l’invettiva contro il Vaticano, la cultura del tempo e l’analfabetismo dilagante raggiungono livelli mai notati in precedenza. La critica, intrisa di sarcasmo e ironia, non risparmia il segretario di Stato di Pio IX, Giacomo Antonelli, il Lanza, il papa e alcuni esponenti del mondo culturale, tra cui De Amicis e il suo stile «intriso di sentimentalismo»; mentre nell’animo del poeta subentra quella rassegnazione manzoniana che trova riscontro nella figura dell’ “umile” Fra Cristoforo, anch’egli sarcasticamente introdotto nell’opera poetica, in quanto simbolo della “sottomissione” dell’Italia al predominio straniero. Il tutto « […] Per non cader in tentazion. […]», ovvero per non gonfiarsi (sempre ironicamente) di orgoglio nazionale. Quell’orgoglio nazionale, o “italo valor”, che traspare, invece, dai versi precedenti: l’ “Italia unita” si vanta di essere stata “educata” (ancor prima di diventare motivo di ludibrio per le nazioni) dal Machiavelli («[…] Il sangue non è acqua; e m’ ha educata / Nicolò Machiavello. […]»). Non era un ricordo lontano, intanto, la tirata satirica contro i romantici e i “poetucoli patriottardi” (Ancora ai poeti ) inserita nella raccolta Juvenilia, in cui il Sommo Poeta e il Segretario fiorentino s’inchinano, ancora una volta ironicamente, all’Italia sottomessa al dominio delle potenze straniere: « […] Italia Italia mia ! / Or via, che Dante e Niccolò s’inchina / A questa bella Italia parigina ! […]».Pur volendo dare credito alla tesi del Vinciguerra, per cui ad un periodo “repubblicano-giacobino” (quello dei Giambi ed Epodi) segue, dopo il 1870, un periodo “monarchico-reazionario” del Carducci (ormai convinto che la libertà nazionale e la difesa dal Vaticano fossero attuabili solo intorno alla monarchia del 20 settembre), un punto, tuttavia, va tenuto ben saldo: un sottile filo rosso sembra collegare la “prima” esperienza poetico-letteraria dello scrittore toscano alla “seconda”, nell’ottica di un persistente “classicismo storico” che rappresentò l’elemento primario non solo della lirica dei Giambi ed Epodi, ma anche della successiva. Un classicismo che nella storia nazionale (sia essa storia romana o medievale, storia del Comune o dei “Principati”) e, in modo particolare, nel pensiero politico di Dante e Machiavelli (quest’ultimo antesignano e divulgatore del concetto di Unità nazionale, nonché strenuo assertore della liberazione dell’Italia dagli stranieri) ritroverà la sua essenza fondamentale. Nasceranno, in tal maniera, i capolavori “storici” della poetica carducciana: Su i campi di Marengo, La leggenda di Teodorico, La canzone di Legnano, Faida di Comune, La chiesa di Polenta, Roma e, soprattutto, Il Comune rustico, rievocazione di un momento della vita pubblica di un Comune della Carnia, dove, ancora una volta, risulta evidente il contrasto tra la situazione deplorevole e sconcertante del periodo unitario e la vitalità civile e politica di un popolo che, nell’alto Medioevo, «a man levata dicea sì», assurgendo, pur nella sua indigenza e limitatezza, a simbolo supremo della continuazione dell’idea di “romanità”. Si può certamente parlare, allora, di una conversione carducciana (e – va ribadito ancora una volta – l’ode a Margherita di Savoia potrebbe esserne un segnacolo evidente); ma, nel contempo, non può passare inosservato come l’adesione alla monarchia, (ciò è stato giustamente ricordato da Vittorio Gatto nell’introduzione al Ҫa ira [Roma 1989] ), avesse comunque mantenuto in vita «i suoi (del Carducci) convincimenti a favore di una democrazia progressiva»; e questo dal momento che «l’autodeterminazione e la libertà di un popolo non potevano essere messe in discussione per meschine opportunità politiche».Il popolo, dunque: un popolo di cui bisognava rivendicare il diritto storico e sociale, alla luce di un democraticismo civile e di un progressivo innalzamento delle classi più umili. Carducci fu pienamente convinto del fatto che le masse andavano “educate”, dopo la delusione e l’amarezza consequenziali al venir meno di quegli ideali storico-politico-culturali maturati nel periodo rinascimentale prima, in quello illuministico e risorgimentale, quasi per riflesso, dopo. Il ricorrere costante, quindi, al pensiero politico del secolo XVI (in modo particolare al Segretario fiorentino) e, di conseguenza, alle teorie proprie del secolo della Ragione (Foscolo e l’Alfieri autore dei trattati Del Principe e delle lettere e Della tirannide, entrambi di chiara ispirazione machiavelliana) convalida ancor più la tesi per cui solo e soltanto nella letteratura e nel “classicismo storico” fosse possibile, per il Carducci, ravvisare gli insegnamenti e i precetti utili allo sviluppo sociale e politico della Terza Italia. Si consideri, a tal proposito, quanto lo scrittore stesso, replicando alle critiche dei “reazionari” (dopo la pubblicazione del Ҫa ira) e difendendo il popolo francese e i principi della Rivoluzione, asseriva: «[…] Che Dante odiasse i Francesi, o meglio i reali di Francia, lo capisco: […]. Che li disprezzasse e gl’invidiasse non senza odio, Nicolò Machiavelli, lo capisco: erano stati troppo facili vincitori di quei principi italiani tanto a loro superiori nell’arte del dissimulare, dell’avvelenare, del corrompere e del tradire; […]; e Nicolò, con tutta l’unità d’Italia che si rimpastasse in pensiero, era molto tenero della sua piccola e gloriosa repubblica. Che gli odiasse Vittorio Alfieri, lo capisco anche meglio: a lui, nobile piemontese, puzzavano quegli avvocatucci di Parigi che gli aveano sequestrato, più ancora delle rendite e dei libri, la sua repubblica classica. […] Ma che noi, dopo il 1859 raccolti a stato uno che si predica forte, dobbiamo avere il misogallismo per instituzione nazionale, perché i Francesi si reggono con altro modo di governo che noi, perché a un tratto occuparono quello che a noi fu offerto e non lo volemmo; questo non lo intendo […]» (cfr. Prose di Giosuè Carducci, ZANICHELLI, Bologna 1938, pp. 1026 – 1027). Successivamente, quindi, il poeta toscano faceva ulteriori e significative considerazioni sul concetto di “Nazione”, rilevando come la “cultura” e la Scuola passive e inerti, se non un mondo politico millantatore e senza ideali, rappresentassero la causa principale della bassezza civile e dell’ignoranza dei popoli: «[…] L’idealità di una nazione, la religione cioè della patria, ha per fondamento, per focolare alimentatore, una o più realità: ciò sono una grande trasformazione e ascensione delle classi inferiori verso il meglio; un ordinato e sano svolgimento delle forze economiche nelle classi mezzane; un’aristocrazia almeno del pensiero, della scienza, dell’arte, in una cultura superiore di genio altamente nazionale. […] E alla letteratura e alla scuola senza pensieri, al governo e alla politica senza idee, risponde la vita senza convinzioni […]. Io ho paura d’altro: ho paura che, se con sì fatta gente non si fondano le repubbliche, né meno si afforzino le monarchie: ho paura che intanto abbiamo quel che ci meritiamo, Machiavelli Depretis e Tacito Chauvet: ho paura che avremo nell’avvenire anche di peggio» (Ibid., pp. 1032 ss.). Una drastica e severa conclusione, dunque, permeata di quegli ideali etico-nazionalistici che avevano ispirato l’intera coscienza storica dello scrittore di Valdicastello. La critica, seppure costruttiva, ad alcuni uomini del suo tempo (Bonghi, Cancogni, Cappelletti, Tarchioni) e a quanti contestarono e tentarono di screditare, per paura, i “dodici sonetti”, l’opposizione Machiavelli/Depretis e Tacito/Chauvet confermano senz’altro quanto finora detto: Carducci fu un convinto assertore della poca preparazione, in campo politico, di una buona parte dei rappresentanti del nuovo governo unitario, dannosi e inservibili, a quel punto, non solo per la costituzione di una “Repubblica”, ma per lo stesso potere monarchico (ed è chiaro, anche in questo caso, il richiamo a Machiavelli e al suo Principe [cfr. Princ., I]). Il tutto, alla luce di una costante tendenza a riaffermare i valori di “umanità” e sviluppo sociale, civile e culturale sulla base del pensiero classico prima, di quello risorgimentale, diretta conseguenza di quello, dopo. Nel contesto generale di uno “storicismo nazionalistico” proficuo e fecondo, unica e vera alternativa, quasi agli albori del nuovo secolo, al lento declino degli ideali più vivi di “libertà” e progresso civile e culturale, in un’Italia “Nazione” solo di nome, ma, sicuramente, non di fatto. Nel gennaio del 1907 veniva scoperto all’Università di Bologna il busto del Carducci: Pascoli tenne un discorso davvero significativo, sostenendo che il poeta sarebbe stato sempre «lì, il maestro perenne accanto al maestro caduco, in cospetto agli alunni rinnovantisi, assorto nella sua incomunicabile meditazione» [cfr. A. A. MOLA, Giosuè Carducci: scrittore, politico, massone, Milano 2006, p. 397]. Pochi giorni dopo, il 16 febbraio, lo “storico” dell’Unità moriva, e Giolitti, nel proporre l’erezione di un monumento nazionale, non esitava a paragonarlo a Vittorio Emanuele II e a Garibaldi, quale artefice e vate supremo della Terza Italia. Nello scenario della Grande Guerra non pochi combatterono con le poesie di Pascoli e Carducci nel tascapane. Il Duce, nell’Italia fascista, della “romanità”, di quella romanità tanto cara al poeta toscano, avrebbe fatto il suo unico e vero cavallo di battaglia. Ma questa è un’altra storia.
Prof. Giovanni Lovito
Veramente questo giornale mi piace. Con grande gusto riesce ad ospitare anche articoli di un certo spessore culturale e letterario. Complimenti anche al prof. Lovito.
Sono appassionata di letteratura e di saggistica in genere. Grazie a questo giornale ho potuto leggere l’interessante scritto del prof. Lovito. Spero di poter leggere anche in seguito cose così interessanti.
Molto bella questa pagina culturale. Brava la direttrice che sceglie sempre con oculatezza gli scritti da privilegiare.