Le scuole: meglio chiuderle!

Aurelio Di Matteo*

Quando un Ministro e un Governo prenderanno provvedimenti seri e decisivi per dare finalmente una Scuola degna di tale nome al Paese? Ci si meraviglia che nel Concorso per accedere ai ruoli della Magistratura il numero di coloro che hanno superato le prove sia stato inferiore a quello dei posti da coprire. E il motivo? Oltre la non conoscenza della materia oggetto delle prove, la maggior parte dei candidati ha evidenziato grossolane carenze di ortografia, grammatica e sintassi. Ci si meraviglia anche della circostanza che qui a Salerno nelle prove per abilitarsi alla professione di Avvocato un numero eccessivo di candidati non abbia superato la prova scritta. E il motivo? Per alcuni la causa è stata la non conoscenza della materia (cosa pur sempre grave!), ma per i più è stato lo scempio che essi hanno fatto della lingua italiana. Potremmo citare tanti di simili casi che le cronache hanno riportato in questi ultimi anni e sempre con grande meraviglia e “imputazione” ai giovani esaminati. Ci si dimentica che questi giovani concorrenti e candidati, ai quali diamo il titolo di “ignoranti”, sono il risultato della nostra Scuola, che si sono formati e istruiti stando nelle aule scolastiche italiane, che sono il prodotto dell’insegnamento di quei Docenti che da decenni hanno il solo scopo di protestare contro i cosiddetti “tagli” e invocare con forza la stabilizzazione a tempo indeterminato, che la scuola è organizzata e diretta da Dirigenti che non riescono a comprendere che nei nuovi Istituti alberghieri lo sdoppiamento della classe in esercitazione comporta il raddoppio delle ore per due classi di concorso, tanto che è dovuta intervenire con Circolare ad usum delphini il Ministro Gelmini. E allora sarebbe meglio chiudere la Scuola e ricominciare da capo, prioritariamente con una seria politica di formazione, selezione, reclutamento e valutazione del personale scolastico a tutti i livelli. La situazione disastrosa della scuola italiana è il risultato di una politica scolastica tutta centrata sulle politiche del personale, che non erano finalizzate alla sua qualificazione, alla differenziazione delle funzioni e della carriera, alla professionalizzazione del compito affidato, ma al solo inserimento in un elefantiaco apparato amministrativo-impiegatizio che ne ha condizionato l’atteggiamento culturale e massificato il ruolo. La scuola è stata trasformata in ammortizzatore sociale, in ufficio di collocamento e in strumento del Welfare.  Ancora oggi, con miopia pregiudiziale e ideologica, s’insiste su quest’aspetto, enfatizzando il falso problema della riduzione degli organici, tra l’altro, programmata già dalle due Finanziarie di Prodi-Padoa Schioppa, ma rimproverata soltanto alla Gelmini. L’ignoranza ortografica, grammaticale, sintattica e lessicale (e si trattasse solo di questo!) riscontrata nei giovani ventenni iscritti all’Università e per i quali molti atenei hanno attivato corsi finalizzati a superare il gap linguistico, non deriva proprio dal degrado culturale in cui versano la formazione e la funzione del personale scolastico, a cominciare da quel ciclo elementare investito pienamente nel 1990 dalla riforma “occupazionale” e non didattica dell’insegnante trino, man mano quadruplicato, quintuplicato e più? Quando un Ministro e un Governo avranno la forza e la chiarezza politica di risolvere i veri problemi della Scuola italiana che sono ben altri da quelli connessi a una salutare e necessaria razionalizzazione dell’impiego delle risorse umane? L’annuale studio-rapporto dell’OCSE li ha ampiamente e oggettivamente documentati e analizzati. Un dato del rapporto OCSE è emblematico dei mali della scuola italiana e della fallimentare politica perseguita, sulla quale ancora s’insiste da parte di un sindacato conservatore e una sinistra che oltre il “no” è incapace di proporre qualcosa che abbia senso. In Italia sono addetti agli Istituti scolastici 156 unità lavorative per ogni 1000 alunni; la media OCSE è di 116 e l’europea di 123; di contro la scuola italiana, sempre nelle periodiche rilevazioni della stessa organizzazione, risulta l’ultima e talvolta la penultima.Se un’istituzione scolastica da oltre quindici anni dà risultati progressivamente sempre più negativi, il buon senso e la serietà amministrativa e politica comporterebbero una sola decisione, quella che in altri Paesi è ampiamente e giuridicamente praticata: sostituire i responsabili della formazione e della gestione o chiudere l’Istituto di fronte al persistere del mancato raggiungimento degli standard di riferimento. Altri due dati emblematici emergono dal rapporto, ovviamente riferito all’ordinamento scolastico vigente al 2010. Uno è questo: tra i 7 e i 14 anni i nostri studenti passano in aula oltre 8.000 ore, contro una media Ocse di 6.862, in particolare, tra i 7 e gli 8 anni stanno a scuola per 990 ore l’anno (media Ocse 790); tra i 9 e gli 11 anni 1.023 ore (media Ocse  835) e tra i 12 e i 14 le ore salgono a 1.089 (media Ocse 926). L’altro riguarda le somme investite: in Italia la spesa per studente in rapporto al PIL ammonta al 22% per la Materna, al 25% per la Primaria e al 28% per la Secondaria di contro ad una media OCSE rispettivamente del 18%, del 21% e del 26%. L’Italia, insomma, è il Paese nel quale gli alunni passano più ore a scuola, hanno a disposizione il maggior numero di docenti e costano alla collettività molto più degli altri Paesi industrializzati. Allora che cosa non funziona? Se la qualità della scuola non è legata alla quantità delle ore di lezione, alla quantità di risorse investite e al numero di personale impegnato, significa che a non funzionare è la qualità del personale preposto alla formazione e istruzione. Ed è ovvio che la conclusione non possa essere che una sola: per migliorare la scuola italiana, da una parte, non è più rinviabile l’introduzione di seri meccanismi che selezionino il personale in ingresso e che valutino annualmente il lavoro degli insegnanti e dei dirigenti con sistemi di valutazione che leghino retribuzioni, avanzamenti di carriera e qualità delle prestazioni al merito professionale; dall’altra urge eliminare il valore legale del titolo di studio per un’attestazione di sole competenze acquisite da verificare e valutare al momento dell’accesso al mondo del lavoro.

*Comitato per la razionalizzazione della formazione per il Turismo – Ministero del Turismo