L’uso della parola in politica

 Ferdinando Longobardi

L’ambiente discorsivo è una struttura dinamica che, senza enfasi, sembra richiamare una certa disponibilità alle parole altrui, alla circolazione delle idee, all’alternarsi soprattutto dei punti di vista, con chiare radici nella pratica greca dell’agorà. Fin dalla più remota antichità, accanto alla parola magico-religiosa, che ha una sua efficacia, affidata a una casta fuori dal controllo sociale, si forma e si difende la parola-dialogo, sorta nelle assemblee dei guerrieri e ampiamente testimoniata nell’opera di Omero. Finalmente, con l’affermarsi della città-stato, la parola-dialogo si rende autonoma dal valore sacrale, si dà una forza politica e proprie leggi di funzionamento; assegna struttura e profilo ai rapporti sociali, di cui diventa strumento, ed è insieme mezzo di conoscenza della realtà. La parola diventa, quindi, un bene comune deposto al centro del dibattito; la sua dialogicità è fisicamente rappresentata dall’alternarsi dei vari oratori che occupano appunto il centro dell’assemblea, vale a dire una posizione equidistante da tutti gli altri. Come dice Gorgia nel suo celebre Encomio di Elena, “la parola è una potente signora, che pur dotata di un corpo piccolissimo e invisibile compie le opere più divine: può far cessare il timore, togliere il dolore, produrre la gioia e accrescere la compassione”. La parola è messa continuamente in scena nella nostra società dai discorsi politici ed è riprodotta ormai in tanti modi differenti, a seconda degli stili e delle intenzioni, e questo ci consente di passare ad un secondo livello d’uso della parola: quella di pura tecnica retorica. Sembra si debba riandare un’altra volta alle origini, a Protagora (V sec. a.C.) che addestrava gli allievi a sostenete le antitesi, ponendo intorno ad ogni argomento due discorsi l’uno opposto all’altro; si dice, appunto, che Protagora insegnasse quanto i retori più avanti avrebbero considerato il loro principale esercizio formativo: disputare distintamente pro e contro la stessa parte. I nostri politici contemporanei hanno imparato a seguire fin dalla struttura scenica, e poi nell’azione discorsiva, la dottrina sofistica della contrapposizione, dall’antilogia. Ne deriva che in ogni tribuna o dibattito politico gli interlocutori contrapposti sono veri e propri antagonisti del discorso, ossia antilogisti impegnati in un agone verbale. Mentre il vero politico, forse, dovrebbe porsi dalla parte della ragione intesa come buon procedere delle argomentazioni, ispirandosi a una teoria del discorso come persuasione piuttosto che come sfoggio di abilità anche ingannevoli.