Mons. Lefebvre e l’abito ecclesiastico
Che un sacerdote pubblichi un articolo citando mons. Lefebvre può sembrare a tanti scandaloso…Alcuni ritengono che i Lefebvriani non siano cattolici anzi che stiano al di fuori della Chiesa, dimenticando invece che i seguaci di mons. Lefebvre sono cattolici a tutti gli effetti anche se non ancora in piena comunione con Roma. Infatti il Santo Padre Benedetto XVI ha tolto la scomunica ai vescovi ordinati dall’arcivescovo francese. Nel libro intervista di Peter Seewald “ Luce del mondo” a pag 174 il Papa riguardo alla revoca della scomunica ai Lefebvriani afferma: “ Ho già spiegato che quel passo è paragonabile a quello che stiamo facendo in Cina. Quando i vescovi sono scomunicati perché hanno mancato nei confronti del Primato ma poi lo riconoscono, la scomunica giustamente è revocata. Quindi, come ho già detto, la loro scomunica non aveva nulla a che fare con il Concilio Vaticano II, ma era stata inflitta per avere mancato contro il primato. Successivamente, in una lettera lo hanno riconosciuto e noi abbiamo agito di conseguenza. Inoltre, già sotto il pontificato di Giovanni Paolo II in un incontro dei capi di dicastero – quindi di tutti coloro che presiedono un organismo pontificio – era stato deciso di revocare la scomunica nel caso fosse giunta una lettera del genere.”. Comunque ancora oggi Il nome Marcel Lefebvre suscita in molti antipatia ed avversione, in realtà, almeno fino a poco prima dello scontro con PaoloVI, è stato considerato in Vaticano per molti decenni uno dei migliori vescovi a livello mondiale della Chiesa Cattolica. Monsignor Marcel Lefebvre (nato a Tourcoing, Francia, 29 novembre 1905 e morto a Martigny, Svizzera, 25 marzo 1991) fu ordinato sacerdote nel 1929 e nominato vicario in una parrocchia operaia di Lille. Ben presto, entrò nella Congregazione missionaria dei Padri dello Spirito Santo, partendo per il Gabon nel 1932. Appena giunto in Africa, fu nominato professore di Dogma e di Sacra Scrittura al Gran Seminario di Libreville diventandone il direttore nel 1934. Nel settembre del 1947, fu consacrato vescovo e nominato Vicario Delegato del Senegal. L’anno successivo fu nominato Delegato Apostolico per tutta l’Africa francese. Rappresentante della Santa Sede in 18 Paesi africani, era responsabile di 45 giurisdizioni ecclesiastiche, due milioni di cattolici, 1.400 preti e 2.400 religiose. Nel 1955 divenne il primo arcivescovo di Dakar dove rimase fino al 1962. Al suo ritorno in Francia, monsignor Lefebvre fu messo a capo della piccola diocesi di Tulle, dove rimase pochi mesi poiché eletto Superiore Generale dei Padri dello Spirito Santo. Al Concilio Vaticano II fu uno degli animatori del “Coetus Internationalis Patrum”, un gruppo di 250 vescovi che tentò di opporsi alla corrente progressista. La sua battaglia contro le novità introdotte dal Concilio lo portò alla fondazione della Fraternità Sacerdotale San Pio X . “I miei collaboratori e io stesso”, diceva, “non lavoriamo contro nessuno, né persone né istituzioni. Lavoriamo per costruire quello che la Chiesa ha sempre fatto e per nessun’altra ragione. Noi siamo legati alla Chiesa Cattolica Romana e noi vogliamo continuare il Sacerdozio della Chiesa Cattolica e Romana. Nient’altro! Noi vogliamo operare per la Chiesa”. In un suo scritto sull’abito ecclesiastico il vescovo francese dichiarò: “ La scomparsa di ogni testimonianza nell’abito appare chiaramente come una mancanza di fede nel sacerdozio, una disistima del senso religioso del prossimo, nonché una vigliaccheria, una mancanza di coraggio delle proprie convinzioni. Da quasi cent’anni i Papi non cessano di deplorare la secolarizzazione progressiva della società. Il modernismo e il sillogismo (Movimento eterodosso, di orientamento progressista, condannato da papa san Pio X) hanno diffuso gli errori circa i doveri delle società civili nei confronti di Dio e della Chiesa. La separazione della Chiesa dallo Stato, accettata, stimata talvolta come il migliore degli statuti, ha fatto penetrare a poco a poco l’ateismo in tutti i campi dell’attività dello Stato e in particolare nelle scuole. Quest’influsso deleterio continua, e siamo costretti a constatare che un buon numero di cattolici e persino di sacerdoti non ha più un’idea esatta del posto della religione, e della religione cattolica, nella società civile e in tutte le sue attività. Il laicismo ha invaso tutto, anche le nostre scuole libere e i nostri seminari minori. In queste istituzioni la pratica religiosa è in netta diminuzione. La frequenza alla comunione è sempre più esigua. Il sacerdote che vive in una società di questo genere ha l’impressione crescente di essere estraneo ad essa, poi di essere molesto, testimone di un passato superato e definitivamente estinto. La sua presenza è tollerata. E’ almeno un’impressione frequente nei giovani preti. Donde quel desiderio di allinearsi al mondo secolarizzato, scristianizzato, che si traduce oggi nell’abbandono della veste talare. Questi sacerdoti non hanno più la nozione esatta del posto del sacerdote nel mondo e di fronte al mondo. Hanno viaggiato poco e giudicano superficialmente questi concetti. Se fossero rimasti per qualche tempo in paesi meno atei, li avrebbe edificati constatare che la fede nel sacerdozio è, grazie a Dio, ancora molto viva nella maggior parte dei paesi del mondo. Il laicismo, diciamo pure l’ateismo ufficializzato, ha simultaneamente soppresso in molte relazioni sociali gli argomenti di conversazione riguardanti la religione. La religione è divenuta nel rango delle questioni intime, delle questioni di coscienza. Esiste pertanto in tutto l’ambiente umano così laicizzato un falso pudore che ha per conseguenza di evitare questo argomento di conversazione. Si suppone perciò gratuitamente che quelli che ci circondano, nelle relazioni di lavoro o in quelle casuali, siano a-religiosi. Ora, se è vero, purtroppo, che molte persone in certi paesi ignorano tutto della religione, è pur tuttavia un errore pensare che tali persone non abbiano più alcun sentimento religioso, ed è soprattutto un errore credere che da questo punto di vista tutti i paesi del mondo si somiglino. Anche in questo campo i viaggi ci insegnano molte cose, mostrandoci che gli uomini in generale sono ancora, grazie a Dio, molto preoccupati del problema religioso. Ritenere l’anima umana indifferente alle cose dello spirito e al desiderio delle cose celesti significa conoscerla male. E’ vero il contrario. Questi princìpi sono essenziali nell’esercizio quotidiano dell’apostolato. Davanti al laicismo e all’ateismo, allinearsi interamente vuol dire capitolare e rimuovere gli ultimi ostacoli alla loro diffusione. Il sacerdote è una predicazione vivente grazie alla sua veste, grazie alla sua fede. L’assenza apparente di sacerdoti, soprattutto in una grande città, costituisce un grave regresso nella predicazione del Vangelo. E’ la continuazione dell’opera nefasta della Rivoluzione che ha saccheggiato le chiese, delle leggi di separazione che hanno scacciato religiosi e religiose, che hanno laicizzato le scuole. E’ rinnegare lo spirito del Vangelo, che ci ha predetto le difficoltà che verranno dal mondo al sacerdote e ai discepoli di Nostro Signore. Queste tre constatazioni hanno conseguenze gravissime nell’anima del sacerdote, che si secolarizza, e trascinano le anime dei fedeli verso una rapida laicizzazione. Il sacerdote è, come insegna il Vangelo, il “sale della terra”. “Se il sale diventa insipido, con che gli si renderà sapore? A null’altro è buono che a essere buttato via e calpestato dagli uomini” (Mt. 5,13). Ahimè, non è forse ciò che aspetta al varco in ogni momento questi sacerdoti che non vogliono più apparire tali? Il mondo non li amerà per questo, bensì continuerà a disprezzarli. Quanto ai fedeli, saranno dolorosamente colpiti dal fatto di non saper più con chi hanno a che fare. La veste era una garanzia di autenticità del sacerdozio cattolico. Considerati il contesto storico, le circostanze, i motivi, le intenzioni, il nostro problema non è perciò irrilevante, una pura questione, molto secondaria, di moda ecclesiastica. Si tratta della funzione stessa del sacerdote come tale, nel mondo e nei confronti del mondo. Ed è proprio su di essa che intendono prendere posizione quei sacerdoti e religiosi che portano l’abito civile nonostante le proibizioni episcopali. Ed è per questo che la norma che autorizza il “clergyman” non ha mai avuto alcun effetto restrittivo nei confronti dell’uso dell’abito laico, anzi ha assunto il significato di un incoraggiamento a portarlo. Il problema non è più se il sacerdote dovrà mantenere la talare oppure portare il “clergyman” fuori e la talare in chiesa e in canonica; ci domandiamo se il sacerdote manterrà o no qualunque abito ecclesiastico. Noi, in queste circostanze, abbiamo scelto di mantenere l’abito ecclesiastico. Diciamo “in queste circostanze” giacché va da sé che, se fossero prese nei confronti dell’abito ecclesiastico nuove misure che salvaguardassero i due princìpi sopra enunciati – il segno esteriore del sacerdozio e la testimonianza evangelica – e questo in modo decoroso e discreto ma evidente, non esiteremmo ad adottarle”.