Appunti di pratica filosofica (I)
La consulenza filosofica mira, secondo Gerd Aschenbach, “nella migliore delle ipotesi, a un’illuminazione sui malintesi che rendono la vita non viva”. (La Repubblica del 14/06/08). Come si può arrivare a questo tipo di “illuminazione”? Il metodo non metodico di Achenbach, la sua via non tanto alla “vita beata” o alla “salvezza” quanto alla vita pienamente – per quanto possibile – vissuta, mi pare consistere in un suo atteggiamento fondamentale di fiducia nelle capacità e possibilità interpretative dei suoi “ospiti” (così chiama i suoi clienti), i quali, dal momento che scelgono di rivolgersi a un “filosofo”, sono già in qualche modo orientati al dialogo, se non ancora alla dialettica, in senso socratico, e alla “confessione” non dei propri peccati – altrimenti si rivolgerebbero a un sacerdote – ma della propria esperienza vissuta, o meglio, della propria sofferenza (o insofferenza) per il fatto di non vivere come vorrebbero, o di vivere come non vorrebbero. Naturalmente le motivazioni che persuadono una persona a chiedere l’aiuto, l’ascolto, l’inizio di un dialogo definito, anzi, predefinito come filosofico, saranno le più diverse e non potranno venire in chiaro che nel corso dei colloqui con il “consulente”, e non senza ostacoli e resistenze di varia natura; ma in ogni caso dovranno pur muovere da una qualche consapevolezza o autoriflessione su un disagio “esistenziale”, o un deficit peculiare che pone in conflitto gli ospiti con se stessi e, spesso, con l’ambiente circostante. Il punto di partenza sarà dunque una situazione vissuta come inconciliabile tra i desideri, le aspirazioni, i progetti e una realtà che, in quelle determinate condizioni, non può che essere vissuta come insopportabilmente ostile. All’inizio c’è dunque la coscienza di trovarsi o in una prigione senza sbarre o in un labirinto da cui non si sa come uscire (la mosca nella bottiglia di cui parlava Wittgenstein). Il compito del consulente – ammesso ovviamente che sia uscito da tempo dalla sua bottiglia o dalla sua caverna – sarà quello di aiutare l’ospite (il prigioniero di se stesso) a ritrovare la via della libertà. A ciascuno la propria. Ma il presupposto è che il prigioniero, o la prigioniera, sappia di essere tale, e che voglia liberarsi dalle proprie catene (o idoli).“La pratica filosofica si basa sull’idea che il compito della filosofia non è risolvere problemi ma porre problemi; non risolve situazioni difficili ma pone situazioni difficili da risolvere. Secondo questa visione, la pratica filosofica dovrebbe aiutarci a sviluppare la nostra auto-comprensione e a essere più coscienti delle questioni fondamentali con cui ci confrontiamo nella vita. Il punto è che nella vita quotidiana, anche se non ce ne rendiamo conto, ci poniamo continuamente domande filosofiche su quello che pensiamo o non pensiamo, sulla validità delle nostre scelte, sulle nostre emozioni, sui nostri desideri e sulle nostre speranze.” (Ran Lahv, alla I conferenza di Pratica Filosofica, a Lima, nel febbraio del 2007). Lo diceva anche Antonio Gramsci: tutti gli uomini, nel momento in cui parlano, comunicano tra loro o con sé medesimi, esprimendo bisogni, emozioni, sentimenti e concetti – sia pure convenzionali e correnti nel proprio ambiente socioculturale – filosofano. La lingua stessa che impariamo, prima in famiglia e poi a scuola, contiene già una determinata visione del mondo, quindi è già una filosofia, non in senso tecnico e riflesso ma pratico e inconsapevole. Tuttavia, a questo primo stadio, si tratta della filosofia cosiddetta del “senso comune”; di una filosofia cioè che non sa di essere tale, e che è circoscritta e condizionata dalle convenzioni linguistiche, etiche, estetiche, politiche, religiose e genericamente valoriali circolanti nella società in cui i “cavernicoli” (in senso platonico) si trovano a vivere. Tutti gli uomini sono filosofi in potenza, ma non tutti lo diventano effettivamente. E vediamo difatti che i più si accontentano, ahimè, delle ombre proiettate sulla parete in fondo alla loro personale caverna; il primo passo per uscire dalla quale è indubbiamente prendere coscienza della caverna medesima. Però qui si incontra una difficoltà teorico-pratica tutt’altro che trascurabile: come possiamo riconoscere , cioè oggettivare la nostra caverna rimanendo all’interno di essa? Che cos’è che oggettiviamo, le ombre o gli oggetti veri che le proiettano, i fenomeni o le cose in sé? E chi ci assicura, una volta per miracolo (o per virtù) usciti fuori, alla luce del sole, che gli oggetti che vediamo siano quelli veri? Ad ogni modo dice benissimo Ran Lahv: il fine della filosofia non è di farci stare meglio nella nostra caverna, adattandoci alle presunte condizioni immodificabili di fatto, ma di trascendere la nostra caverna con le sue ombre considerate fin troppo a lungo (e persino colpevolmente) cose salde. Il fine è uscire dalla caverna, certamente. Ma per andare dove? Una volta fuori, ognuno andrà per la sua strada, camminando sulle proprie gambe e pensando con la propria testa. Almeno, questa è la speranza.
Leggere i suoi articoli,gent. prof. Sguerso, al cospetto di tante ombre, per altro troppo localistiche,a me personalmente già mi fa sentire fuori dalla “caverna” e mi permette di respirare aria fresca e pulita, non VIZIATA da interessi, opportunismi, bieca cecità. L’idea che la Filosofia possa essere affine o quanto meno complementare alla Psicologia è molto interessante: la prima serve alla ristrutturazione del pensiero, la seconda alla ristrutturazione della psiche.Io mi auguro che un giorno si possa insegnare Filosofia e Psicologia in tutti i gradi di scuola come materie obbligatorie, perchè altamente formative per la persona e il cittadino, ma riconosco che sono idee… d’altri tempi!
Distinti saluti.
Le ombre, o le “nubi” (per citare il cardinal Bagnasco) che si addensano non solo sul nostro Paese – oggi equiparato ormai nella stampa estera , grazie agli scandali privati e alle menzogne pubbliche del nostro telegenico premier, a una repubblica delle banane – ma sul mondo intero sono sempre più cupe e minacciose. Eh sì, pare proprio che il famoso e decantato “nuovo ordine mondiale” garantito dall’egemonia del capitalimo finanziario globale fosse in realtà un “nuovo disordine” che le disastrose “guerre umanitarie” del Terzo Millennio hanno contribuito a radicalizzare.
E temo che non basti più dare la colpa di quello che succede ai “nemici dell’Occidente”, forse è venuto il tempo che l’Occidente interroghi se stesso sulle sue proprie colpe. Sempre che non sia troppo tardi. Grazie per il commento.
L’Occidente, o”Solem occidentem” per i latini,a significare “un sole morente”,sembra che abbia il suo destino scritto nel suo nome.Ce la farà l’uomo occidentale a dare una sterzata positiva a questo destino nell’ambito delle sue possibilità o ne sarà vittima?
Tutto sta nel suo buon uso della ragione e della consapevolezza!