Montesano: a Saarbrucken, cavie e schiavi d’ Hitler
Anche nel Vallo di Diano, come nel resto d’Italia, per il 27 gennaio è previsto un lungo calendario di iniziative rivolto ai giovani per celebrare il Giorno della memoria e «non dimenticare gli orrori del nazifascismo», quasi ogni paese, Comune e associazioni vari, sta organizzando eventi, tra il giovedì e il sabato, per commemorare e in ricordo dei deportati. Il nostro quotidiano, e gli elettori più fedeli se lo ricorderanno, abbiamo iniziato a ricordarli, già da Dicembre, dalla cerimonia di riconoscimento di Giovedì 9 dicembre, del teatro Augusteo di Salerno, dove il Prefetto di Salerno il Dott. Sabatino Marchione, consegnò a parenti e reduci ancora in vita la Medaglia D’Oro del Presidente della Repubblica. Tra i 22 Riconoscimenti, c’erano anche tre deportati del Vallo di Diano, Angelo Bruno di Sant’Arsenio, Giuseppe Di Pierri di Montesano e Ottavio Ferro di Sassano, purtroppo tutti e tre scomparsi da diverso Tempo, a ritirare le medaglie al loro posto sono stati i loro figli. Dopo la storia di deportazione di Ottavio nella città di Gross-Rosen, sempre nel ricordo di chi ha vissuto le atrocità e l’orrore dell’Internamento nazista, abbiamo incontrato Mario, figlio di Giuseppe Di Pierri di Montesano, per conoscere e in primis per non dimenticare Giuseppe e gli uomini come Giuseppe. Con voce a tono un ‘po’ soffocati dall’emozione inizia a parlare di suo padre “….Mio padre, Giuseppe, era nato a Montesano l’8 Novembre del 1910 di mestiere faceva il contadino, era il quinto di sette figli. Ha fatto il militare di leva nel III Reggimento Granatieri di Sardegna di istanza a Viterbo per ben due anni dal 1929 al 1931. Spesso era in viaggio, da una città all’altra, essendo, questo corpo dell’esercito italiano, composto da giovani che più si avvicinavano alla tanto elogiata razza Ariana di Hitleriana memoria. Raccontava, non ricordo bene se da militare di leva o da richiamato, che in occasione di una visita di Hitler in Italia, man mano che il dittatore nazista accompagnato dal Duce visitava le città italiane essi venivano trasferiti di notte per essere pronti al mattino per la sfilata e strategicamente venivano posti sempre in prima fila. Finita la leva obbligatoria poco dopo Natale il 27 Dicembre del 1937, sposò mia madre, Matilde Pepe De Novi. Dopo appena un anno (1939) il 30 gennaio nacque il primo figlio Filippo e nel 1941 nacque il secondogenito Enrico, che morì all’età di due anni per “meningite”. “Nel 1940, poco prima che nascesse Enrico – continua Mario – fu richiamato e arruolato alle armi, sempre assegnato presso il III reggimento Granatieri di Sardegna a Viterbo, con cui partecipò alla campagna di guerra nei Balcani prima in Albania, successivamente in Montenegro e Grecia. Mio Padre raccontava che specie in Grecia vi era una forte presenza di militari tedeschi che all’annuncio della firma dell’armistizio dell’8 Settembre 1943, da parte del generale Badoglio, accerchiarono i pochi militari italiani facendoli prigionieri. Dopo due giorni partirono, su delle tradotte militari costipati dentro dei carri bestiame, alla volta della Germania ove arrivarono dopo 10 giorni di viaggio. Raccontava che tale viaggio fu qualcosa di terrificante perché non vi era neanche la possibilità di sedersi, con un tozzo di pane al giorno e poca acqua. Tale viaggio rese gradito l’arrivo al campo di concentramento di Saarbrucken”. (Sarrebruck in francese, è la capitale del Land tedesco del Saarland, il campo di concentramento passava per un centro riabilitativo, basato su sperimentazioni pseudomediche sugli internati, di fatto in questi campi, formalmente di lavoro, si sviluppò l’uso dei prigionieri come cavie). Parlare e ricordare, di queste cose, con un certo distacco senza essere emozionalmente coinvolti è impossibile, per questo ci fermiamo qualche minuto e dopo un buon caffè, Mario riprende a raccontare con la prigionia del Padre “..nel campo di concentramento, dopo un bagno sommario perché costretti a passare nudi sotto il gettito di un idrante, vennero selezionati in base alla prestanza fisica e destinati al lavoro, la maggior parte dentro un’acciaieria. L’alimentazione era scarsa e poco nutriente tant’è che fu ricoverato più volte per deperimento organico, lascio immaginare un giovane di 1,85 di altezza ridotto ad un peso di 40, 50 kg. In una di queste occasioni riuscì a barattare un paio di scarpe nuove per delle sigarette e della cioccolata; una volta rientrato al campo scambiava le sigarette per il pane che veniva loro dato. Per parecchio tempo tirò avanti così. Si riteneva anche fortunato perché un altro suo fratello, sempre prigioniero dei tedeschi. era capitato in una industria chimica e mentre i civili portavano, lavorando, la maschera i prigionieri non la dovevano indossare, forse pure per questo fu il primo dei fratelli a morire in età pure abbastanza giovane. E’ vero gli sono state concesse due decorazioni con la croce al merito di guerra senza alcun riconoscimento pensionistico anche se più volte ha presentato istanza con assegnazione di una tantum dell’ottava categoria della pensione di guerra; ma in realtà non gli è mai pervenuto alcunché. Fino alla fine ha sperato che lo Stato si ricordasse di lui anche perché era a conoscenza che lo Stato Italiano negli anni sessanta venne indennizzato dalla Germania per il lavoro svolto da queste persone definite, GIUSTAMENTE, “gli schiavi di Hitler”. Alla fine come tutte le persone, ma questo fa parte dell’essere umani si lascia andare in un piccolo sfogo, ma con molta dignità “Fortunatamente mio padre è sopravvissuto e fu liberato nella Primavera del 1945, in estate era già di ritorno a casa , dove riprese a fare il contadino. Firmare l’armistizio fu scelta scellerata e coraggiosa allo stesso tempo. Scellerata perché all’epoca l’Italia era piena di truppe tedesche nel tentativo di bloccare l’avanzata degli alleati già sbarcati in Sicilia; coraggiosa perché alla fine fu determinante perché segnò l’inizio della fine del nazifascismo. Però , mi chiedo, i sacrifici e le sofferenze di questa gente a cosa sono serviti? Se oggi , guarda caso, ricorrenza dei 150 anni dell’unità d’Italia, siamo governati da forze politiche che della cosa non sono interessati perché vorrebbero “fargli la festa” all’unità d’Italia e che , temporaneamente, si sono accontentati del federalismo fiscale… l’Amministrazione comunale non è particolarmente attenta a queste persone, anche perché, con i tempi che corrono non ne ha la possibilità economica, i giovani si allontanano sempre più, specialmente, coloro che non hanno, in famiglia, toccato con mano il vissuto di qualche familiare. La memoria di questi fatti, senza alcuna retorica, andrebbe sempre tenuta viva e trasmessa alle nuove generazioni…”