Degli eroici furori
Fedele fino all’ultimo al proprio pensiero filosofico e religioso, e sapendo quale condanna era riservata agli eretici non pentiti dal tribunale dell’inquisizione cattolica , quando l’8 febbraio del 1600 fu consegnato al braccio secolare dall’autorità ecclesiastica romana ut quam clementissime et sine sanguinis effusione puniretur (perché sia punito con la maggior clemenza possibile e senza spargimento di sangue), l’impenitente e ostinato “nolano” Giordano Bruno rivolse ai suoi giudici la famosa apostrofe: maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam (forse avete più paura voi nel condannarmi che non io nel ricevere la condanna). Non sappiamo se e come quei magistrati abbiano reagito a queste parole dell’eretico autore dello Spaccio della bestia trionfante, un’altra delle sue opere in cui viene stigmatizzata l’ipocrisia allora imperante tra le autorità politiche e persino tra quelle religiose, cattoliche o protestanti che fossero; sappiamo invece che non mutò atteggiamento quando il 17 febbraio “da ministri di giustizia fu condotto in Campo di fiori, e quivi spogliato nudo e legato a un palo fu bruciato vivo. “ Per impedirgli di bestemmiare ancora e magari di turbare con discorsi da esaltato qualche anima pia, fu condotto al rogo “con la lingua in giova”, cioè serrata da una morsa; e non è certo inverosimile che egli, come riferisce un testimone presente all’esecuzione, abbia rifiutato di baciare il Crocefisso prima che si accendesse il rogo. Tanta fierezza fu giudicata dagli inquisitori pertinace ostinazione, quasi volesse dimostrare che egli moriva martire e volentieri, nella certezza che la sua anima sarebbe tornata, con il fumo del rogo, nell’eterna e infinita anima dell’universo a cui tendeva con tutto il suo essere. E infatti, solo che avesse finalmente abiurato, il Nolano avrebbe potuto scampare da quella morte atroce; perché mai dunque non ha abiurato ammettendo (come farà più tardi Galileo) di essersi sbagliato? Semplice: perché non credeva di sbagliarsi nel pensare che “il tempo tutto toglie e tutto dà; ogni cosa si muta, nulla s’annihila, è un solo che non può mutarsi, un solo è eterno, e può perseverare eternamente uno, simile e medesmo……Tutto quello che fa diversità, di geni, di specie, differenze, proprieta di, tutto che consiste nella generazione, corrozzone, alterazione e cangiamento, non è ente, non è essente: ma condizione e circostanza di ente et essere, il quale è uno, infinito, immobile…….Se dunque veggiamo alcuna cosa che se dice morire, non doviamo tanto credere quella morire, quanto che la si muta, e cessa quella accidentale composizione e concordia, rimanendono, le cose che quella incorreno, sempre immortali” ; e quindi che la morte fosse un’illusione, una di quelle false credenze del senso comune e volgare contro le quali aveva scritto e predicato per tutta la vita e a costo della vita: “L’anima razionale non teme la morte, anzi, talvolta, spontaneamente ad essa tende, a lei spontaneamente va incontro”. (Cfr. E. Bencivenga, Il pensiero come stile, B. Mondadori). L’universo di Bruno non ha principio né fine, non nasce e non muore, la sua anima pervade ogni essere, e nessun essere lo eccede, non c’è infinito oltre l’infinito, e la Causa dell’infinito, essendo infinita è anch’essa infinito: se la Causa è infinita infinito sarà anche l’effetto. La Causa infinita dell’universo infinito è Dio, il quale, essendo infinito, è in tutto e in tutti, è nell’insieme e nelle sue parti, che saranno anch’esse infinite, non potendo l’infinito esser composto di parti finite. Il Principio di tutto ciò che è, Bruno lo chiama plotinianamente Uno, è l’Uno da cui tutto discende digradando e degradandosi e a cui tutto aspira a ritornare, per ricongiungersi con il Principio eterno. Tutto? Il tutto non aspira proprio a niente, non avendo altro fuori di sé; caso mai saranno le anime cadute o “decadute” da una condizione divina a una umana e, spesso, ahimè, asinina; dalla purezza dell’essere eterno al divenire e trasmutare continuo delle forme, dei modi e delle vicende delle singole vite. Le quali possono anche perdersi nelle bestie trionfanti dei vizi se non ritrovano la via per risalire dalla bestia all’uomo e dall’uomo al Dio da cui tutto ha vita. Nello spaccio, cioè nella cacciata della bestia trionfante, è indicata la via, erta e sassosa, che dalla vita animale e abbrutita dal vizio conduce a quella umana e virtuosa, nobilitata dalla fatica e dall’operare per il bene di tutti e di ciascuno. Nei dieci dialoghi d’amore che compongono De gli eroici furori è rappresentata la conversione dell’uomo in Dio per mezzo dell’eroico furore dell’innamorato che vuol divenire una cosa sola con l’essere amato. Al centro di quest’opera è il mito di Atteone, il cacciatore che, per aver sorpreso Diana nuda e averla guardata, fu trasformato in cervo, trasformandosi così da cacciatore in selvaggina, e fu sbranato dai suoi cani. Qual è il senso nascosto di questo mito? Atteone è l’innamorato che cerca la verità e la bellezza divina immanente nella natura (Diana), i cani rappresentano i pensieri e i desideri di Atteone che si volgono convergendo su di lui, a significare che la verità e la divinità che cerchiamo fuori è invece in noi, e quando lo scopriamo, diventiamo brama dei nostri stessi pensieri. “Cossì, scrive Bruno, gli cani, pensieri de cose divine, vorano questo Atteone, facendolo morto al volgo, alla moltitudine, sciolto dalli nodi de perturbati sensi, libero dal carnal carcere della materia; onde non più vegga come per forami e per fenestre la sua Diana, ma avendo gittate le muraglie a terra, è tutto occhio a l’aspetto de tutto l’orizzonte”. Ah, Nolano, sapessi quante e quali muraglie ci impediscono ancora di contemplare tutto il nostro orizzonte!