“Orizzonti di Mezzanotte” di Ingenito 38° 17 agosto 2011, giorni- 25
Dal Capitolo38 : Il cadavere –Parte prima- h. 24.00 -Complice natura. Trascorsero alcune decine di minuti, senza che nulla di particolare accadesse sullo yacht. Poi,d’improvviso, le acque sottobordo si agitarono. Era mezzanotte. Un movimento vorticoso di bollicine agitate dal fondo imbiancò le onde di una scia spumeggiante. Uno strano oggetto stava emergendo. Un oggetto misterioso, di metallo scuro, si delineava in superficie, protetto dalle ombre di una notte senza luna. Sembrava che il mare farfugliasse, nel suo gorgoglio naturale. Mosso da due motori silenziosi, il piccolo batiscafo scuro espose la gobba gocciolante all’asciutto. Un colpo secco precedette di pochi istanti l’apertura della botola centrale di coperta. Ne uscì un uomo di circa trentacinque anni, non di più, di carnagione scura e dal fisico possente. Si appoggiò con una mano alla piccola ringhiera esterna. Afferrò una solida corda di canapa e la lanciò a due marinai dello yacht. La raccolse quello dalla vistosa cicatrice sulla guancia destra, ricordo di una coltellata ricevuta meno di un anno prima, in una feroce rissa nel locale Hoy como ayer di Little Avana a Miami. Muti, sul ponte di poppa, i due indossavano tute e scarpe da tennis. Un abbigliamento inconsueto per marinai in servizio su eleganti e sfarzosi yacht come il loro. Comunicarono l’uno con l’altro con gesti convenzionali, ma precisi. Sembravano conoscersi, sapevano soprattutto cosa fare. Tutto avvenne in maniera rapida. Avevano fretta, specie l’uomo emerso dagli abissi. Il suo profilo atletico e robusto si delineò nell’ombra in tutta la sua incredibile forza e statura. Era alto non meno di un metro e ottantacinque. Sfiorava i cento chili, soprattutto di muscoli. ————- Mentre uno dei due marinai dello yacht si coordinava sulla pedana di poppa a stretto contatto con il nuovo venuto tendendogli la mano, l’altro agganciò il piccolo scafo, assicurandolo con una corda a non più di due metri dalla poppa. Nello stesso tempo, altri due uomini dello yacht issarono da sottobordo, non senza fatica, un involucro strano, un oggetto lungo e affusolato racchiuso in un telone di plastica. Pesava terribilmente e, più di una volta, furono costretti a poggiarlo di lungo sui gradini della scala che menava in coperta. Poi si passò al suo trasferimento dallo yacht al piccolo batiscafo. L’operazione stava per essere completata senza particolari difficoltà, nel silenzio più assoluto. Si sentivano solo le onde rifrangersi con energia lungo le paratie della possente imbarcazione. Ciò che colpiva era la straordinaria capacità di quel gruppo di agire all’unisono, come se conoscessero a memoria il da farsi. Un’altra cosa era certa. In tutto questo tempo comunicarono a bisbigli, talvolta con frasi brevi, ma secche. Il tono di voce era bassissimo, quasi impercettibile. Sembrava un dialetto sconosciuto, indistinguibile. Ma sapevano il fatto loro. Avevano appena deposto il grosso involucro tra la minuscola torretta e la pedana di galleggiamento, in attesa di farlo scivolare all’interno della botola, quando, d’improvviso, l’eco di un rumore strano li bloccò. Si irrigidirono all’istante, ammutoliti. Sia pure lontano, il fragore di due possenti motori in avvicinamento li fece sbiancare in viso. Si acquattarono alla meglio. I due uomini sulla pedana di poppa della grossa imbarcazione da diporto, l’altro tuffandosi in acqua e reggendosi alla scaletta del piccolo scafo. Poi, tesero d’istinto l’orecchio in direzione dell’intruso che si stava avvicinando. Il frastuono dei motori si intensificò. Per uno di loro la paura si trasformò in terrore. Ma l’uomo del batiscafo, freddo e impassibile, estrasse dal giubbotto impermeabile un piccolo binocolo a raggi infrarossi e lo puntò verso l’imbarcazione in arrivo. Riconobbe la sagoma di un guardacoste della marina militare italiana. Tirò un sospiro di sollievo che nessuno notò. Da quella distanza, il piccolo sottomarino protetto sottobordo dallo yacht non poteva essere visto né intercettato dal radar di bordo della motovedetta. Il nuovissimo congegno elettronico di cui era dotato, una vera e propria diavoleria della tecnica non ancora in dotazione alle marine militari straniere, tranne che forse a quella statunitense, avrebbe impedito qualsiasi identificazione. Ma doveva immergersi all’istante. Quella scoperta della tecnologia navale militare era un gioiellino grazie al quale i batiscafi o i sottomarini potevano avvicinarsi ai potenziali bersagli senza essere individuati, a meno che non si trovassero in superficie. Non c’era tempo da perdere, quindi. L’uomo sperò che la motovedetta in lontananza fosse in normale perlustrazione. Bisognava comunque fare presto. La tensione era al massimo. L’imprevisto aveva compromesso la misteriosa operazione di trasloco. Un eventuale sopralluogo a bordo del batiscafo così come dello yacht sarebbe stata una. Bisognava predisporsi al peggio, da una parte e dell’altra. A costo di ingaggiare una lotta armata, agendo di sorpresa, per poi fuggire. La motovedetta, intanto, virò proprio in direzione del Dominator. Mancavano non più di dieci minuti al contatto. La vita a bordo si animò d’improvviso. Da sottocoperta apparve un uomo in divisa da ufficiale. Era il comandante. Scambiò concitato alcune battute con qualcuno all’interno della cabina. Sembrò avere ricevuto da lui ordini precisi. Rivolgendosi ai protagonisti dell’operazione di carico ordinò secco: — Liberatevi dell’involucro. Subito. Non c’è più tempo da perdere. Via di qua. Trasportatelo altrove. Verso terra, ma lontano da qui. Calate il gommone e scomparite. Bisogna sbarazzarsi di tutto. Quell’ordine non ammetteva repliche. Non importavano i rischi. Sempre meglio che fare trovare a bordo quel carico ingombrante e pericoloso, in previsione di una perquisizione ormai certa. Il piccolo battello fu calato rapidamente in acqua e il grosso involucro, leggermente piegato alle estremità, venne sistemato alla meglio sul fondo. Il motore rispose al primo strappo e, nella complicità della notte, filò via senza fare rumore. I due marinai si sedettero sui bordi, l’uno di fronte all’altro, il timone manovrato con perizia e attenzione da uno di loro. Il gommone orientò la piccola prua verso terra, scivolando sicuro tra la complicità delle acque chete e silenziose. Uno dei due uomini, lo sfregiato, si prese cura di quel misterioso oggetto. Evitò, infatti, che finisse in mare a causa delle onde lunghe, frequenti e improvvise, provocate dal passaggio di navi mercantili da poco salpate dal porto di Salerno e non troppo distanti da loro. L’altro manovrava con consumata bravura, avendo cura di tenere bene orientato il timone nella direzione giusta e aiutando l’amico a trattenere con la mano destra l’involucro, ogni qual volta gli sbalzi inevitabili dello scafo rischiavano di farlo rotolare pericolosamente. Dopo molti minuti, la costa fu a portata di mano. Favorito dalle tenebre inutilmente perforate da piccole e innocue stelle troppo lontane, il gommone nero resse bene alla spinta del minuscolo Evinrude. A poco meno di mezzo miglio da terra, i due uomini puntarono dritto verso la spiaggia di Santa Croce. Di lì a poco intravidero la sagoma del “ponte degli innamorati” e vi si diressero con decisione. Nel corso della traversata erano stati molto diligenti nel guardarsi intorno. Ogni qualvolta si profilava la presenza di una imbarcazione, piccola o grande, in movimento o ferma con le lampade ad acetilene accese, ebbero cura di deviare con circospezione di quel tanto da non essere notati né ascoltati. Ma, a parte le apparenze, nessuno poteva affermare con certezza chi fossero, cosa facessero, per chi e perché lo facessero. In una delle aree di vacanze più esclusive del mondo, questi comportamenti anomali erano in realtà comuni. Transitarono sotto il “ponte degli innamorati” pochi minuti dopo. Il motore era al minimo. Lo spensero per prudenza, senza proferire parola. (…)