Censis-Repubblica. Ennesima bocciatura delle Università del Sud

Michele Ingenito

Per il dodicesimo anno consecutivo il duo Censis-Repubblica stila la nuova classifica sulle migliori università italiane. Per l’ennesima volta il Sud ne esce con le ossa rotte. Auto commiserarsi rappresenta in sé una reazione poco commendevole; ma l’autocritica sarebbe un necessario atto di umiltà. Come sempre, in Italia, quando la cosa pubblica non va, la colpa è di tutti e, quindi, di nessuno. Così non va. Bisogna riflettere e valutare con attenzione quali possano essere, se non tutte, almeno alcune delle cause che ingenerano fenomeni negativi come quello innanzi esposto, per quanto imprudente possa apparire il calo a caldo della mannaia dell’accusa contro queste continue defaillances o débacles istituzionali meridionali. Se il Mezzogiorno è accademicamente in fondo a se stesso, al suo stivale, cioè, le ragioni sono indubbiamente molteplici. Tra queste, il persistere dell’assenza, negli atenei meridionali, delle condizioni ideali per consentire ai big in senso puro dell’università di sostare non per tempi brevi, ma permanenti, nelle realtà che li ospitano. E’ pur vero che ciascuno aspira a rientrare, più prima che poi, nelle sedi di provenienza, cioè nelle città di residenza. Ragion per cui, si assiste annualmente al via vai settimanale di valenti studiosi e ricercatori i quali, invece di accasarsi sul serio nel territorio che li ospita, e, quindi, di fare scuola in loco, di integrarsi con l’ambiente sociale e culturale del territorio, di seguire i giovani studenti e potenziali studiosi e ricercatori poi, non vedono l’ora, alla fine della lezione o di quel super concentrato di attività, compattate quasi sempre in pochissimi giorni della settimana, di imbarcarsi sul primo bus, treno o aereo pronto a decollare verso il centro-nord . Il privilegio della non residenza obbligatoria (in barba alle norme che pure esistono, ma che nessuno osa far rispettare) appartiene, di fatto, solo a questa categoria pressoché unica del sistema professionale italiano. Cose che nessuno si sogna di applicare nei paesi autenticamente civili del mondo accademico europeo avanzato e/o anglosassone. In quelle realtà a nessun docente universitario viene consentito, nei fatti e nella forma, di volarsene, un giorno si e uno no delle sparuta settimane semestrali dedicate al proprio corso di lezioni, da Edinburgo a Londra, da Parigi a Cannes, da Monaco ad Amburgo, da Yale a Washington (o viceversa) pur rientrare di sera a casa. La casa di quei docenti è all’interno dei campus universitari, naturalmente integrati con il territorio, e non cattedrali nel deserto in mezzo alle campagne, da cui diventa obiettivamente impresa allontanarsi di sera per assistere ad uno spettacolo in città, ad una iniziativa culturale pubblica o per una semplice bevuta con gli amici. Altro limite indecente sta nel fatto che, molto spesso, i vertici accademici, più che in mano ad accademici puri, finiscono nelle mani di mestieranti dell’accademia; gente che, una volta conseguito a calci nel sedere lo status in questi casi infausto di professori ordinari, vanno a caccia anima e corpo, per il resto degli anni di servizio (spesso decenni), di cariche gestionali in virtù delle quali entrano rettori e se ne vanno come tali. Gestendo ed imponendo logiche di potere clientelari, alle quali molti si asserviscono pur di compiacere il principe. Il quale, collocatosi astutamente sotto le vesti protettive del politico di riferimento, si guarda bene dall’applicare la legge; pur di imporre, ad esempio, ai colleghi ballerini, di risiedere effettivamente nella sede di servizio e dedicarsi a quell’ateneo da cui vengono generosamente retribuiti. Il rischio di perdere consensi e, quindi, voti all’ennesima campagna elettorale, lo distoglie dall’esercizio della vigilanza e dal conseguente obbligo del rispetto dei propri doveri istituzionali. La fuga, poi, da certi atenei meridionali considerati di fatto scadenti dal Censis-Repubblica, viene talvolta giustificata dal fatto che, ai grossi cervelli abituati ad agire in piena autonomia scientifica, non viene spesso concesso lo ‘spazio’ dovuto per potere operare in assoluta autonomia, come impone il settore della scienza e della ricerca. Da qui la voglia, da parte loro, di andarsene alla prima occasione utile. Certo, una grande sfasatura del nostro sistema universitario è costituito anche dal tempo definito riconosciuto a moltissimi docenti liberi professionisti. Ciò consente loro di dedicare ancor meno tempo alle facoltà di appartenenza, legittimandone poco assidue presenze e ancor meno il tempo spesso inesistente da dedicare alla ricerca e alla formazione dei giovani studiosi. E allora diventa inevitabile pensare alla eliminazione del valore legale del titolo di studio. Insomma, ci vorrebbe una rivoluzione universitaria autentica, a 360 gradi, ancora prematura nella nostra società soprattutto meridionale, per quanto sede, paradossalmente, dei più bei cervelli, o quasi, del nostro paese.