Il calcio che non c’è più

Angelo Cennamo

Da ragazzo, sono stato anch’io un tifoso di calcio. Andavo allo stadio sventolando sciarpe e bandiere, affiggevo nella mia cameretta poster e gagliardetti, e i lunedì, a scuola, con i miei compagni, facevamo a gara a chi la sparava più grossa. Da almeno 6 generazioni, i maschietti italiani sono fatti così. Di recente anche molte femminucce. Il tifo è contagioso, forse si chiama in quel modo proprio per questa ragione : vedi un ragazzino o tuo fratello con la maglia dell’Inter, e subito ti viene voglia di emularlo, anche se sei nato a Palermo. Poi però si cresce, si diventa adulti, e allora ti ritrovi davanti a un bivio : ti illudi che il calcio sia rimasto quello che hai  immaginato quando andavi alle elementari, oppure apri gli occhi e scopri che oltre i valori dello sport : la fratellanza, la lealtà, il senso di appartenenza e l’attaccamento alla maglia, c’è ben altro. Ve le ricordate le “bandiere del calcio”, ovvero quei giocatori che non mollavano la loro squadra nemmeno se un uragano faceva crollare lo stadio o se, per un problema economico, si era costretti ad andare in trasferta col treno merci? Io, da napoletano, ne ricordo tante : Vinazzani, Bruscolotti, Juliano, Ferrario e molti altri. Non erano dei semplici calciatori, erano calciatori del Napoli : scegliendo l’azzurro, avevano quasi abbracciato una fede. Lo stesso discorso vale ovviamente per altri loro colleghi della Juventus, piuttosto che della Roma o del Torino. Lo sport era sacrificio e la maglia andava onorata, sempre e comunque. Oggi mi capita di vedere tanti miei amici di allora, della prima giovinezza, che davanti ad una partita di calcio spasimano, vengono colti da attacchi d’ansia. Fanno file chilometriche per comprare i biglietti ed assistere a un derby ( oh, è un derby!). Che arrivano a piangere, se la loro squadra non si qualifica per gli ottavi di coppa, e che se per caso incontrano, a passeggio per strada, il loro centravanti preferito, diventano dei veri babbei per scattare una foto col telefonino o per chiedere un autografo sul giubbino ( appena comprato coi risparmi del mese prima). Lui segna il rigore, mette il dito in bocca, e loro gonfiano le gote del viso e sbavano per il godimento. Lui sbaglia il goal davanti alla porta, e loro imprecano dalla rabbia. Le persone di cui parlo hanno anche cinquant’anni, sessanta. Poi, lo stesso giocatore per il quale hanno riso a crepapelle e pianto a dirotto, fino al giorno prima, di colpo, decide di trasferirsi al Real Madrid, perchè con quei sei milioni di euro netti che guadagna a stagione, non ce la fa a comprare neppure un jumbo per andare a fare shopping. A quel punto, e solo allora, i tifosi rimasti bambini scoprono che il calcio forse è soltanto business, e che tutte quelle emozioni vissute a caro prezzo (abbonamento alla pay tv, biglietti per le trasferte all’estero e gadgets vari) sono state buttate nel cesso ( Direttore, non mi censuri la parola più rappresentativa dell’articolo). Ma si tratta solo di pochi giorni di scoramento, perchè l’anno successivo, i buontemponi che tifano, ricominciano a comprare la gazzetta e a sognare i loro beniamini, che, nel frattempo, pensano a ben altro.

 

3 pensieri su “Il calcio che non c’è più

  1. E’ tutto vero e, poichè un gran numero di italiani si comportano
    in tal modo, potremmo dire, semplificando, che siamo una massa di imbecilli, narcotizzati dal sistema e pronti a buttar via
    quei pochi soldi che ci restano per arricchire i furbi che ci illudono con il pallone.
    Se poi, per quegli stessi, ci facciamo spaccare la testa davanti allo stadio, o sulle gradinate, allora chiamarci imbecilli
    non basta a rendere l’idea.
    Ancor più quando il nostro “eroe” del pallone, per il quale abbiamo litigato o messo a rischio la nostra
    incolumità nel girone di andata, nel girone di ritorno ce lo ritroviamo contro, agguerrito e pronto a bucare la rete
    della nostra squadra del cuore.
    Vale la pena emozionarsi per questa gente?
    Quando ci sveglieremo?

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