Scuola: un Concorso papocchio

Aurelio Di Matteo

Un certificato di nascita con la marca da bollo è più vero di uno senza? Una laurea con valore legale di centodieci è garanzia che il destinatario possa essere un ottimo docente di Lettere o della disciplina di riferimento? Un dipendente assunto in seguito a una prova concorsuale è più bravo, più capace e più meritevole di un altro assunto con altre procedure? In questa nostra giovane Italia – solo 150 anni – qual è la percentuale di quelli assunti per meriti concorsuali negli Enti statali e Locali, nelle Partecipate e nella moltitudine di variopinti Organismi pubblici? E questa percentuale è rappresentata dai dipendenti e dai dirigenti più capaci e competenti? Il Ministro Profumo quando ha bandito il nuovo Concorso per l’assunzione di quasi dodicimila docenti, si è posto questi banali interrogativi da uomo della strada? O ha pensato che l’inefficienza della formazione scolastica e i riscontri sempre più negativi delle rilevazioni OCSE potessero essere superati con un tale anacronistico e poco trasparente strumento di selezione, inutilmente dispendioso e nemmeno rivolto ai giovani laureati? Si è chiesto per quale motivo i docenti avevano un ruolo sociale rispettabile, una valutazione di riguardo nell’opinione pubblica e alcuni di loro passavano spesso a ricoprire cattedre universitarie, prima che giungesse la stagione della Scuola degli anni settanta del decorso secolo, quando non era raro vedere sulle pareti dei nostri edifici scolastici – anche in un prestigioso Liceo salernitano – scritte di questa natura: ”Chi studia avvelena anche te, digli di smettere”? Si è spiegato il motivo per il quale un tempo l’aspirazione a essere insegnante era prioritaria per i migliori laureati, mentre in seguito l’occupazione nel carrozzone della Scuola è diventata un ripiego e un ammortizzatore sociale? Senza contare che per la maggioranza delle donne più che una realizzazione professionale era considerato il lavoro più comodo e compatibile con il ruolo di moglie per il limitatissimo impegno orario e i lunghi periodi di chiusura delle lezioni. Sia nell’acritica opinione dei più, sia negli spot mediatici del Ministro, il ritorno a prove concorsuali dopo tredici anni è considerato un valido strumento per ridare a questa professione la sua antica dimensione valoriale e alla scuola docenti didatticamente capaci e meritevoli. Di fatto tale scelta diventa per una serie di motivi uno dei tanti papocchi che hanno caratterizzato gli ultimi decenni della politica scolastica italiana. Il nuovo concorso è utile solo a rimescolare le graduatorie, a ingrossarle con le nuove future inclusioni e a dare un po’ d’illusione preelettorale. Innanzitutto il ricorso a questo vecchio arnese non garantisce per niente che sia uno strumento per selezionare merito e competenze. Le ultime vicende che hanno caratterizzato proprio altri concorsi gestiti dal MIUR e le numerose inchieste in altre Istituzioni pubbliche dovrebbero far riflettere a cosa sia servita tale procedura. Si pensi emblematicamente alla risposta data da un alto Dirigente amministrativo dell’Università di Foggia al giornalista che gli chiedeva come spiegasse che ben 15 (!) persone, variamente appartenenti alla sua famiglia, fossero a vario titolo dipendenti di quella Università: “Hanno vinto un concorso”! Evidentemente tutti fortunati ad avere il medesimo codice genetico nel quale erano impresse dalla nascita le specifiche competenze richieste dai concorsi. Non è un caso che nei Paesi dell’OCSE che risultano primi nelle periodiche rilevazioni tale sistema di selezione non esiste, come non esiste l’altro, quello delle graduatorie permanenti basate sull’anzianità di servizio, che è prevalso in Italia diventando il criterio di selezione quasi esclusivo. Nella generalità di questi Paesi, però, esiste uno specifico sistema di formazione finalizzato, correlato a una valutazione continua in itinere e a un’effettiva autonomia e potestù di assunzione delle scuole o dell’Ente locale. Il concorso non elimina, come pure sembra far credere il Ministro, le graduatorie che resteranno a convivere con la lunga teoria – altra graduatoria – dei nuovi idonei. Senza contare che esse fra qualche anno si riempiranno ancor più con tutti quelli che avranno conseguito l’abilitazione con il Tirocinio Formativo Attivo. Tutti i posti disponibili non saranno coperti dal concorso, perciò si continuerà a “selezionare” con il criterio dell’anzianità di servizio, con grande giubilo dei gestori di tante scuole paritarie che potranno ancora servirsi di docenti a costo zero “retribuiti” con l’acquisizione di un punteggio valido per scalare la graduatoria. Contrariamente alla proposizione del Ministro, più falsa che equivoca, il concorso non serve a ringiovanire un corpo docente vecchio e inadeguato – definizione del Ministro – né a dare occupazione ai giovani laureati, essendo rivolto a chi ha già un’abilitazione, la cui età media risulta di 35 anni. È un concorso che aggiunge solo altra confusione a un sistema già farraginoso per la molteplicità di norme ed eccezioni che lo caratterizzano; inutile perché non raggiunge nessuno degli obiettivi strombazzati; di certo dispendioso per le risorse umane e materiali necessarie. Secondo i calcoli, parteciperanno in prima battuta circa duecentomila aspiranti. Con l’esperienza pregressa per altri concorsi simili, il TAR avrà di che occuparsi! A quando un Ministro, poco tecnico e poco politico, che affronti i veri problemi con soluzioni radicali e innovative per garantire merito e competenza a una scuola che torni a essere una scuola di qualità?