Passato e futuro: le nuove sfide della scuola italiana
Settimana convulsa per la scuola italiana quella appena trascorsa. Si sono svolti i temuti test d’ingresso “anticipati” per i corsi a numero chiuso: Medicina e Odontoiatria, Veterinaria, infine Architettura. Polemiche annunciate e note da mesi per un periodo ritenuto poco adatto per selezioni così rigide, affrontate senza una preparazione adeguata (gli studenti degli ultimi anni sono al contempo impegnati con la preparazione della maturità). Immediato al Ministero uno scarica-barile che attraversa gli ultimi esecutivi: dall’attuale ministro Giannini, che ha parlato di decisioni prese precedentemente dall’ex ministro Carrozza del governo Letta, fino a giungere al ministro montiano Profumo che optò per i test dell’anno scorso in luglio. Rimane il rebus sul periodo consono ma soprattutto sull’effettiva validità dei test d’ingresso come strumento di scrematura, laddove magari sarebbe preferibile una selezione naturale che calibri verso l’alto la qualità. Discussioni vecchie e nuove per una scuola italiana che da più parti finisce sotto attacco per prestazioni, costi e efficacia. Una doccia fredda è arrivata dai dati Eurostat che hanno consacrato l’Italia coma fanalino di coda dell’Unione per numero di laureati (22,4% contro il 36,8% della media UE), dato disastroso che fa il paio con una tassazione universitaria tra le più alte d’Europa (superiore solo in Inghilterra e Olanda). L’università italiana accusa il colpo, l’ennesimo ad un’istituzione ritenuta incapace di produrre figure adeguate al mondo del lavoro, il nodo cruciale. Ecco allora i ciclici dati sulla mancanza di figure professionali in grado di ricoprire certi incarichi, tutte riconducibili a profili tecnici per cui manca la formazione richiesta: li chiamano laureati STEM (Scienze, Tecnologia, Ingegneria, Matematica), esperti in discipline che muovono il mondo ma non l’Italia, dove i laureati in queste materia latitano. Troppa fatica forse, poco redditizie in relazione agli sforzi qualcuno accusa malignamente (ed invita come di consueto ad andare all’estero), fatto sta che l’Italia si mostra arretrata nelle discipline che generano progresso. Forse però manca il percorso adeguato per effettuare certe scelte, ed ecco allora che la colpa ricade sul sistema dell’istruzione tutto, per troppo tempo schiavo dei vecchi schemi che finivano per prediligere una formazione umanistica ad una scientifica. Le scelte però sono mutate, segnale quantomeno di una presa di coscienza generalizzata: i recenti dati sulle iscrizioni alle prime superiori (530 mila iscritti) forniti dal Ministero mostrano l’inesorabile caduta del liceo classico, un tempo considerato luogo d’elite, che si attesta al 6% delle iscrizioni totali, surclassato dallo scientifico che raccoglie invece il 22,9 delle preferenze. È il definitivo tramonto di un’egemonia durata decenni quella del classico, ambiente di massima formazione un tempo, oggi rottame piegato dalle spinte della società. Con la crisi non ancora passata, e l’esigenza dunque di prediligere un percorso più “professionalizzante”, vanno forte anche gli alberghieri ed i licei tecnici. Tra legittime richieste del mercato e la necessità autonoma di svecchiarsi, la scuola italiana pare giunta ad un mutamento. Poca influenza paiono avere gli appelli ad un’identità culturale italiana che si fonda nelle sulle arti e le lettere, poco peso ottengono simili recriminazioni di fronte a dei trend mondiali che vanno in direzione opposta. Tristemente un’intera generazione di studenti si ritrova allo sbaraglio in un mondo che ha intrapreso svolte drastiche delle quali la scuola italiana inizia a tenere conto soltanto ora. Eppure, anche di fronte a dei segnali così forti, bisogna chiedersi se la cultura debba subordinarsi in tal maniera al mercato, o se viceversa bisognerebbe riformare a livello più ampio istruzione e lavoro, in modo tale che certe conoscenze siano in grado di ritagliarsi il proprio spazio al di là della domanda economica del momento.
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