San Massimo di Torino e gli angeli
Gennadio, prete marsigliese e storico, nell’opera “De viris illustribus” descrive Massimo come profondo conoscitore della Bibbia, abilissimo predicatore e autore di molte opere, di cui stila un elenco; la citazione termina dicendo che visse durante i regni di Onorio e Teodosio il Giovane. Sappiamo infatti che sopravvisse a entrambi. Si pensa sia stato il primo vescovo di Torino, e in quella veste abbia partecipato al sinodo di Milano nel 451, comparendo come uno dei firmatari di una lettera inviata a papa Leone Magno dai presuli dell’Italia settentrionale; era stato inoltre presente al concilio di Roma nel 465. Indocumento di questo concilio la sua firma compare subito dopo quella del papa Ilario: in queste occasioni la precedenza era determinata dall’età, elemento che porta a supporre che fosse molto anziano. Si pensa sia deceduto poco dopo. Massimo era nato nell’Italia del nord, quasi certamente a Vercelli oppure nella regione della Rezia. Scrisse che nel 397 fu testimone del martirio di tre vescovi missionari dell’Anaunia nelle Alpi Retiche. Sappiamo molto poco della sua vita, benché dai suoi scritti si possano ricavare alcuni elementi. Anche questi scritti debbono essere usati con cautela, e sono oggi sottoposti a un attento esame di autenticità: dall’edizione curata da Bruno Bruni nel 1784, che comprendeva 116 sermoni, 118 omelie e sei trattati, i bollandisti ne attribuiscono alcuni a S. Ambrogio; il prof. C. H. Turner ha curato l’edizione di alcuni scritti latini che attribuisce a Massimo, mentre dom Capelle inclina a pensare che siano opera del vescovo ariano Massimino. Il corpus principale delle opere è però innegabilmente di Massimo, e forma un complesso d’inestimabile interesse per gli storici della teologia. L’opera riveste grande valore per quanto riguarda i costumi e le condizioni della popolazione in Lombardia durante le invasioni gotiche: in un’omelia celebra o martiri Ottavio, Avventore e Solutore, le cui reliquie (…) dimorano con noi, sia che ci custodiscano mentre viviamo nel corpo sia che ci accolgano quando lo abbandoniamo”. In due omelie di ringraziamento predica il dovere di dare lode a Dio quotidianamente e raccomanda a questo scopo l’uso dei salmi: ogni giorno bisogna recitare le preghiere del mattino e della sera, e ringraziare prima e dopo i pasti. Esorta i cristiani a farsi il segno della croce prima di ogni azione : “con il segno di Gesù Cristo (usato devotamente) ci può essere assicurata una benedizioni in tutte le cose”. In un sermone per le calende di gennaio condanna l’uso di fare regali ai benestanti senza fare elemosine ai poveri e denuncia l’ipocrita pretesa di amicizia che non sgorga dal cuore. Altrove c’è l’attacco “agli eretici che vendono il perdono dei peccati”, falsi preti che accettano denaro per assolverli invece di imporre loro penitenze. Massimo è uno dei patroni di Torino. Il santo vescovo aveva una particolare venerazione per gli spiriti celesti ed abbiamo a riguardo due suoi sermoni. Il primo sermone fu pronunciato per incoraggiare i cristiani a non temere i barbari e presenta l’esempio di Eliseo, San Massimo scrive: “Ricordo di avervi detto spesso che noi dobbiamo assolutamente temere questi tumulti di guerra, né aver paura, per quanto numerosa sia la moltitudine dei nemici, perché come dice il Signore, Colui che sta con voi è più potente di colui che è nel mondo; ossia è più potente il Cristo a proteggere i suoi servi che non il diavolo a istigare i nemici. Infatti, benché il diavolo raccolga le sue torme e le inebri di crudele insania, tuttavia facilmente esse saranno distrutte, perché il Salvatore circonda il suo popolo di più potenti aiuti, come dice il profeta: “S’accompagna l’angelo del Signore attorno a quei che lo temono e li salva”. Che se l’angelo del Signore libera dai pericoli quelli che lo temono, non può aver paura dei barbari colui che teme il Signore, né deve paventare l’assalto del nemico chi osserva i precetti del Cristo. Infatti arma dei cristiani sono i comandamenti del Cristo, e il timor di Dio allontana da noi la paura del nemico. Ora le armi alle quali il Salvatore ci addestra son queste: l’orazione, la misericordia e il digiuno. Il digiuno ci difende meglio delle mura, la misericordia ci libera più facilmente che la violenza, l’orazione colpisce più lontano delle saette. La saetta non raggiunge che l’avversario vicino ed in vista, l’orazione ferisce anche il nemico più lontano. Così il santo profeta Eliseo, mentre il re di Siria lo aveva circondato di schiere di armati per prenderlo e farlo prigioniero, non temette né si conturbò, ma al servo che gliene portava notizia rispose: “Non temere; ce n’è di più con noi che con loro”. Oh, la fede del santo profeta! Non teme gli avversari che sono in vista perché sa per fede di avere con sé gli angeli; non teme le insidie perché sa che son presenti le celesti difese. Ce n’è più con noi che con loro. Mirabile cosa! La santità merita di ricevere dal cielo più difensori di quanti assalitori la cattiveria abbia radunato. Ce n’è di più con noi che con loro. Vedete il valore della santità! Quando il servo è ancora incerto della salvezza, il profeta annuncia addirittura una moltitudine di difensori. Quanto più lontano vedono gli occhi dello spirito che non quelli del corpo! Uno non scorge alcun indizio di difesa, mentre l’altro osserva una folla di difensori armati! Quanto grande è la divina misericordia! E’ offerto agli uomini un beneficio e non lo vedono: i pericolanti ottengono l’aiuto e non lo sanno. La pietà del Salvatore è tale che interviene per salvare senza farsi vedere, se ne sente il beneficio senza che lo si scorga con gli occhi. Pertanto sbaglia chi crede di averla spuntata da sé quando gli va bene qualcosa. Dovrebbe infatti sapere che gli avversari si vincono con i meriti piuttosto che con la forza, non tanto dalla potenza son soverchiati quanto dalla santità; come il santo Eliseo, vinceva i suoi nemici non con le armi ma con l’orazione. Infatti non potendo liberare il servo dalla paura solo col dirgli che c’erano molti difensori presenti, pregò il Signore: “Apri i suoi occhi e fallo vedere! E i suoi occhi si aprirono e vide; ed ecco tutto il monte era pieno di cavalieri , eccetera”. Dunque la preghiera del profeta aprì gli occhi del servo. Né fa meraviglia che la preghiera abbia aperto gli occhi perché vedessero l’esercito, quando già aveva aperto il cielo perché l’esercito scendesse. (…) Poi Eliseo ancora pregò e tutto l’esercito nemico fu colpito da cecità. Neanche fa meraviglia se acceca i nemici colui che aprì gli occhi al servo; se toglie la vista agli avversari chi la diede al servo. Dove sono coloro che dicono che le armi degli uomini son più potenti delle preghiere dei santi? Ecco, una sola preghiera di Eliseo piegò tutto l’esercito, per i meriti di un solo profeta tutta la moltitudine dei nemici fu fatta prigioniera. Qual schiere di re, quale turba di soldati riportò mai una tale vittoria da prosternare i nemici ucciderne alcuno? La autentica vittoria è quella incruenta, che alcuno dei vincitori sia ferito”. (S. LXXXIII, I-54; 69-79). Il secondo sermone presenta gli angeli come nostri concittadini e san Massimo di Torino dichiara: “ Forse è parso strano quanto, giorni addietro, abbiamo detto parlando della grazia del santo Eliseo, come in sua difesa scendessero dal cielo gli aiuti, e gli stessero attorno, mandati da Dio, cavalieri e carri da guerra e, accanto a lui, una quadriglia di fuoco. Fenomeno grandioso, ma che non deve meravigliare se si pensa alla santità di quell’uomo. Perché non è strano che chi ha sempre l’animo in cielo meriti di ricevere aiuti di lassù. L’apostolo Paolo dice: “ La nostra cittadinanza è nel cielo”. Dunque, se la nostra cittadinanza è nel cielo, anche la cittadinanza dei celesti può essere con noi, ossia, se viviamo come gli angeli, giustamente meritano che essi vivano con noi. Infatti quelli che vivono santamente hanno tra di loro una certa parentela, unione, società, e non fa differenza che stiano in cielo, o sulla terra, che siano di natura angelica od umana, purché abbiano la stessa santità di vita. La cittadinanza infatti unisce insieme soggetti che possono esser lontani nello spazio, divisi per classe sociale, ma sono tuttavia congiunti da uno stesso stile di vita. E pertanto accade che i santi, essendo uniti dalla partecipazione ad eguale sorte, non si sentano mai separati, e ora gli angeli vengano in terra, ora gli uomini siano assunti in cielo; e avendo in comune l’attività, progrediscano ancora comunicandosi anche la vita e la natura. Ma dirà qualcuno: “Abbiamo spesso udito di angeli discesi tra gli uomini; vorremmo sapere quando mai degli uomini siano trasmigrati fra i celesti!”. E’ facile rispondere ed è chiaro. Elia, maestro di Eliseo, non venne forse rapito in cielo dagli angeli, e su di una quadriga di fuoco come vincitore in trionfo? Ed era veramente vittorioso, non su popoli barbari ma sulle seduzioni del mondo. Infatti gli avversari più pericolosi non sono gli invasori armati ma i costumi depravati: e così comprendiamo come mai in questo nostro tempo sia più facile vincere l’insidia dei nemici che quella dei cattivi esempi”. (S. LXXXIV, 1-31).