Pollica: Premio Vassallo, vince Castel del Giudice
C’è un “convitato di pietra”, imprevisto e criminale, seduto ogni giorno alla tavola di tanti italiani. Si scrive agromafie ma si legge di volta in volta, mafia, camorra ‘ndrangheta e Sacra corona unita. E può nascondersi dietro un pomodoro o un’arancia, una mozzarella campana o uno spigola, un cocomero o un cesto di lattuga, persino dietro il pane e la pizza.Le agromafie sono difficili da sanare, complicate da contrastare. Facili da mangiare. Ogni giorno , nessuno li ha invitati, ma spesso si cena con i boss. Sono loro a imporre marchi e prodotti, a scegliere il menù. La faccia concreta di una mafia ingorda e insaziabile che agisce in ogni comparto, dalla coltivazione alla vendita, altera la libera concorrenza, influenza i prezzi di mercato, scarica i costi sul portafoglio dei cittadini e sfrutta il mondo del lavoro. Di fatto una tassa occulta sui prodotti, una tassa che pesa sulle tasche degli ignari consumatori. E’ difficile stimare il giro d’affari ma i prodotti dell’agromafie ci presentano il conto. In termini di salute perché prodotti poco curati e controllati, fatti al risparmio per lucrare il massimo profitto con il minimo della spesa. Alle mafie la qualità non interessa. E ci presentano il conto anche in termini di soldi, perché i loro prodotti costano caro. Sono in tanti a doverci guadagnare. I mafiosi per prima ma anche i loro “comparielli” quelli che dovrebbero vigilare sulla qualità delle merci e non lo fanno, quelli che pur di vendere accettano i monopoli mafiosi con relativi rincari. Ed ecco che nel prezzo finale del prodotto si accumula il costo della corruzione, del pizzo, del favore. E’ una logica assurda dal punto di vista commerciale, non è così che funzionano le cose nel mercato, ma questo non è libero mercato, questo che raccontiamo è il monopolio protetto della criminalità organizzata. Una filiera criminale che va dall’origine, dai prodotti coltivati e allevati sul suolo,spesso inquinato, passa attraverso la loro lavorazione e il trasporto, passa attraverso supermercati, bar, ristoranti e negozi e arriva direttamente sulle nostre tavole. Le agromafie raccolgono dati e storie allarmanti nella loro “normalità”. Il pane impastato con farine scadenti e cotto nei forni abusivi che utilizzano il legno delle bare rubate nei cimiteri, quello degli infissi delle case in demolizione o quello delle scenografie dei teatri. Legna marcia, trattata con sostanze tossiche, che fa anche particolarmente impressione quando si tratta delle bare dei morti. Carne di animali malati sottratti con vari stratagemmi ai controlli, fatti arrivare dall’estero e spacciati per italiani. Oppure di bestie dopate con farmaci per dare piu’ latte o per essere magari sfruttate come accade per i cavalli nel giro delle corse clandestine e poi macellate illegalmente. Immaginate che una mucca trattata con anabolizzanti arriva al macello con 100 chilogrammi in più rispetto a un capo di bestiame allevato nel rispetto della legge. Il sovrappeso garantisce all’atto della commercializzazione un utile netto di almeno 400 euro a capo. Se si moltiplica per i grandi numeri del mercato ci si fa un’idea del business illegale. Le agromafie non sono solo storie di agricoltura, di pietanze di terra. Nel menu’ criminale è possibile “gustare” anche piatti di mare. L’ultima “trovata” è emersa il 16 maggio 2007 da un verbale del collaboratore di giustizia Giuseppe Misso jr, nipote dell’omonimo boss del Rione Sanità. Il pentito ha raccontato al pm Raffaele Marino che lo interroga: «In molte zone sopra le mura, tra Porta Capuana e Porta Nolana, ma anche a Mergellina, viene imposto ai venditori di frutti di mare l’acquisto di taniche contenenti l’acqua di mare che serve a tenere freschi i pesci e le cozze». Guai a non pagare e non accettare quelle taniche. La legge della camorra non ammette repliche. Nelle carte dell’inchiesta si fa per la prima volta luce sull’assurda “macchina”del traffico clandestino di acqua inquinata.Una genialità tutta napoletana.Un uomo aveva collocato in mare una motopompa nei pressi del Molosiglio sul lungomare di Napoli. Dietro il pagamento di 5 euro a carico, riforniva di acqua sporca autocisterne e furgoni frigo, in alcuni casi addirittura cisterne utilizzate precedentemente per lo spurgo delle fogne. E se ci spostiamo piu’ al Nord, nell’agosto del 2010 la squadra mobile di Forli’ smantella un vero e proprio racket di stampo camorristico per controllare la vendita del cocco fresco sull’intera costa romagnola.Operazione “cocco bello”.Le indagini hanno appurato come, secondo l’accusa, la famiglia Manfredonia esercitasse da diversi anni il monopolio assoluto e costante della vendita del cocco sulla riviera romagnola, da Cattolica ai lidi ravennati. I venditori ambulanti venivano ingaggiati tutti nel napoletano attraverso annunci sui giornali o il ‘passaparola’. Nel piu’ classico stile camorristico il compito principale dei vertici della ‘famiglia’ era quello di perpetuare l’assoluto monopolio del mercato. Per farlo si agiva direttamente nei confronti di saltuari altri venditori ambulanti, ma soprattutto nei confronti dei gestori degli stabilimenti balneari. Chi poneva in vendita nel proprio bar del cocco, riceveva una visita di un membro della ‘famiglia’ che forniva opportuni ‘consigli’.’Pesche, mele, susine, ciliege. Fate mettere dentro tutto quello che volete – era il succo del ‘consiglio’ -, ma, attenti, niente cocco.” Quello si doveva e si poteva assaggiare solo da loro. E nel nostro viaggio, l’ultima tappa non poteva che riguardare il segreto sulla filiera dell’”agricoltura mafiosa”, La mafia, camorra e ‘ndrangheta hanno origini rurali. Non le hanno mai abbandonate. Vengono solo aggiornate alla modernità. I raccolti nelle campagne del casertano, nella provincia di Napoli sono a uso e consumo della camorra. O meglio del clan dei Casalesi, capace di mobilitarsi alla fine di agosto di ogni anno per «spartirsi l’estorsione legata al commercio dei cocomeri» ricavando circa 20.000 euro per ciascun gruppo. Se da giugno ad agosto vi capita di attraversare la Domiziana, la lunga strada che da Napoli porta al mare di Castel Volturno, di Varcaturo e del basso Lazio, e presi dal caldo e dalla sete vi fermate per acquistare in una delle tante bancarelle ambulanti una bella fetta di cocomero ghiacciato, in quel momento gustate sì freschezza e sapore, ma li pagate alla camorra. Emilio Di Caterino, pentito dei Casalesi, già affiliato del gruppo Bidognetti, ha raccontato tutto. E se la quota di 20.000 euro made in cocomeri tardava ad arrivare, si interpellava il capo dei capi, Michele Zagaria, e dopo pochi giorni, chi doveva pagare lo faceva.