Carlo Levi e il nostro tempo

Piero Lucia

Autore letterario e pittore di poliedrica cultura, dalla sensibilità affinata e fuori dal comune, in grado di mischiare, in maniera mirabile, nel suo “Cristo si è fermato ad Eboli”, una scrittura limpida e graffiante, in grado di approdare a stadi assai elevati di autentica poesia, ed ancorata sempre ad una  denuncia sociale- circostanziata e acuta- che s’innesta sulla raffigurazione di un antico e non rimosso dolore secolare. E’ la forma, peculiare e per più versi innovativa, in cui Carlo Levi propone la sua opera alla pubblica attenzione, in Italia, in Europa e poi nel mondo intero, quale intellettuale militante, integralmente immerso nel reale, critica coscienza non astratta o separata dal rapporto con le diverse contraddizioni della vita, nel suo diseguale e convulso scorrimento, ed anzi calato a pieno dentro la cruda realtà di ampie aree di un mezzogiorno interno segnato da tempo immemorabile da immobile, inalterata fissità. Un osservatore, acuto e appassionato, di ogni frammento della realtà che lo circonda, un’anima inquieta intenta ad esplorare, fin dentro le pieghe ed i segmenti più profondi, la società agraria e contadina, nell’ancestrale, secolare fissità, per sempre inalterata ed eguale nei suoi riti e nelle ossificate consuetudini ossessivamente replicate. Il racconto di Levi scava, fin dalle prime pagine, dentro le pieghe più profonde degli usi e dei costumi di un’umanità umiliata, silente e inalterata nella sua struttura, ferita a dismisura dall’arrogante boria dei poteri che violano- senza ritegno alcuno- ogni e qualsivoglia aspirazione, di dignità e rispetto, degli “ umiliati e offesi”.[1] Levi cresce nella Torino colta ed impegnata dei primi decenni del ventesimo secolo, ed è testimone autentico della cultura del Novecento con le sue evoluzioni. Figlio di un’agiata famiglia ebraica, assai giovane consegue la laurea in medicina, professione che eserciterà per 4 anni, prima di dedicarsi intensamente alla pittura. Dal 1922, nella fase convulsa dell’avvento del fascismo in Italia, collabora a  “La Rivoluzione Liberale” di Piero Gobetti e poi più avanti, negli anni trenta, è attivo nell’azione antifascista ed è tra gli estensori del programma del movimento “Giustizia e Libertà”. Ferma e intransigente l’opposizione al regime, un atteggiamento che, nell’agosto del1935, aTorino, ne causerà l’arresto. Dal capoluogo piemontese verrà inviato al confino di Grassano, in provincia di Matera, dove resterà per 9 mesi. Poi, dall’8 settembre del 1935 al 26 maggio 1936, verrà trasferito ad Aliano, (la Gagliano del “Cristo”) un paesino del materano ancora più isolato e inospitale di quello precedente. E  sarà questo lo scenario, e il desolato sfondo, da cui avrà origine la raffigurazione di quel mondo remoto, stregonesco ed umanissimo raccontato nel “ Cristo si è fermato a Eboli”. Il libro verrà scritto durante la lotta partigiana, nella fase di interregno, tra il 1943 ed il 1945, con l’utilizzo di numerose note, appunti, disegni e quadri realizzati durante i mesi di confino. L’opera di Levi darà poi luogo ad un intenso e appassionato dibattito in cui, insieme ai giudizi prevalenti ed ampiamente positivi, si troveranno anche valutazioni critiche e polemiche, tendenzialmente negative. Tali, ad esempio, la tesi espressa da Mario Alicata che lo accuserà di “avere trasportato su piani metafisici e misticheggianti la questione contadina nel dopoguerra, uno degli argomenti di fondo della lotta politica meridionale”.[2] Ed ancora il dirigente comunista e critico letterario, pur riconoscendo la forza e l’efficacia della denuncia sociale di un’opera “ senza dubbio artisticamente molto originale”, tuttavia non gli risparmierà il rilievo secondo cui : “ dall’altra parte c’è l’enunciazione di tesi senza consistenza teorica, nelle quali si rileva chiaramente come sia estraneo al Levi ogni proposito di spiegare storicisticamente le ragioni dell’inferiorità sociale del Mezzogiorno e quindi di individuare le forze storiche che, oggi, possono spingere a soluzione la questione meridionale, e le vie per le quali ciò potrà avvenire”.[3] Critiche allo stesso modo sferzanti  e ingenerose quelle di Luigi Russo, secondo cui l’opera di Levi “era pervasa da una “estraneità” nei confronti delle condizioni di vita dei contadini lucani”.[4] Di ben diverso segno invece l’opinione, d’apprezzamento esplicito, di Italo Calvino e di Jean Paul Sartre. [5] In realtà lo scrittore che per la prima volta ha preso contatto con una realtà nuova, per più versi sconosciuta, con un iniziale stupore e stordimento, ben presto percepisce come- dentro la sua coscienza- inizi a subentrare un nuovo, vitale dinamismo, una subitanea conquista di senso e consapevolezza. Una più piena comprensione del reale, simile ad un’illuminazione folgorante, che lo indurrà ben presto a ritenere che non si può restare estranei, indifferenti e inerti se un tuo fratello, un altro essere di un mondo separato, fino a quel momento per larghi tratti ignoto, è stato condannato ingiustamente dall’arbitrio di poteri secolari ad un presente e ad un futuro gramo, di miseria, d’estrema sofferenza, fisica e morale, di una profonda, assoluta povertà che non ha eguali. E’ l’antica ingiustizia, e l’autentico oltraggio all’umana dignità, da riportare in superficie, e da mostrare agli occhi increduli del mondo, da annullare e rimuovere del tutto con un comune, appassionato impegno collettivo. Il prodromo di un approccio militante, che ora si cala pienamente nel reale. Rappresentazione di certo assai efficace ed impietosa, che poi sarebbe dovuta risultare immediatamente utile all’azione. E non a caso, nel “ Cristo si è fermato a Eboli” venivano usati lucidi, crudi e sintetici concetti esplicativi : “ Cristo si è davvero fermato a Eboli, dove la strada e il treno abbandonano la costa di Salerno e il mare, e si addentrano nelle desolate terre di Lucania. Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né l’anima individuale, né la speranza, né il legame tra le cause e gli effetti, la ragione e la Storia”. [6] Sua intenzione, quindi, come ancora osserverà Italo Calvino, è quella di squarciare un velo di omertà e di rappresentare una realtà rimossa, silente, sommersa e ignota a larga parte del paese. Levi intende in tal senso essere un testimone attivo “della presenza d’un altro tempo all’interno del nostro tempo”[7] L’opera letteraria di Levi, che si dipana contemporaneamente e in parallelo nei segni simbolici e graffianti della sua pittura, è un grido di accusa – acuto e sibilante – e di realismo, che squarcia la coltre, spessa e inestricabile, d’indifferenza diffusa e negazione, riuscendo a consuntivo nell’impresa di causare un repentino salto di consapevolezza collettiva. Opposizione stridente, ed un contrasto netto, alla retorica vacua e inerte, di testimonianza flebile, di raffigurazioni astratte, che nel corso del tempo si sono in vario modo e sempre inefficacemente succedute. Un intellettuale che, costretto al confino dal fascismo in una condizione di assoluto isolamento, politico e civile, col suo doloroso affresco di realtà, concorre a proporre con durezza e senza edulcorarlo il nodo del problema, vitale per un paese unificato di recente soltanto sulla carta. Le note di Levi rendono evidente come, in netto contrasto coi trionfalismi di regime, persistano stridenti diseguaglianze, antiche ed acutissime, innumerevoli ingiustizie che da tempo immemorabile si trascinano irrisolte e mai sanate. Un paese in cui, in un’area territoriale estesa, da secoli si continua a morire- inesorabilmente- per infezioni e malattie, come la malaria, altrove da tempo efficacemente e completamente debellate. Di contro, “La magia popolare cura un po’ tutte le malattie; e, quasi sempre, per la sola virtù di formule ed incantesimi”.[8] Nella realtà accuratamente descritta da Carlo Levi in “ Cristo si è fermato ad Eboli”, così come nei suoi quadri e nei disegni, si esplicita un potente atto di accusa contro una classe dirigente colpevole, miope ed inetta, che per incuria e indifferenza- e per egoistico spirito di parte- ha relegato, nella segregazione estrema e più assoluta, propri fratelli e figli, mai nella realtà divenuti tali. Lo scrittore fotografa, su carta e sulla tela, l’estremo degrado e lo squallore di ampie aree del mezzogiorno in cui nei periodi invernali “ non arrivavano i giornali né la posta, per la neve che chiude le strade : l’isola tra i burroni aveva perso ogni contatto con la terra. Il mutarsi dei giorni era un semplice variare di nuvole e di sole : il nuovo anno giaceva immobile, come un tronco addormentato” [9] Il paese rappresentato da Levi diviene così la realtà sospesa, immobile, fissa e senza tempo che lacera la pelle e la consuma, la cruda, pietrificata dimensione da cui non si può più in alcun modo fuoriuscire. E che penetra, ben oltre la superficie, nei nervi, nel cuore, nella carne e nell’anima del mondo. Intorno tutto è fermo, ed ogni azione o movimento umano appaiono segnati- di per sè- da un torbido e inalterabile destino, già in precedenza scritto da una mano ignota e inesorabile, completamente ostile. Una realtà che è stata progettata da una divinità potente, priva di comprensione e di pietà, in cui è la norma vivere in condizioni di estrema povertà, in squallidi tuguri o grotte insieme agli animali, privati del diritto di essere curati di epatite o di malaria, un regno  recluso e segregato dove la miseria si miscela con l’analfabetismo, unici tratti peculiari e distintivi. Straordinaria l’efficacia delle immagini, la conseguente presa sul lettore, l’emozione che trasuda da ogni pagina, l’esplicita percezione dell’intensità del richiamo ai concetti, antichi e sempre attuali, di libertà e di giustizia, violati impunemente con l’arbitrio e tuttavia per la civiltà dell’uomo sacri diritti inalienabili :“ Gli dei dello Stato e della città non possono aver culto tra queste argille, dove regna il lupo e l’antico, nero cinghiale, né alcun muro separa il mondo degli uomini da quello degli animali e degli spiriti, né le fronde degli alberi visibili dalle oscure radici sotterranee…” [10] E’ il personale approccio, linguisticamente raffinato, pieno di apprensione e di rispetto per un mondo diverso e per più versi oscuro, separato, non immediatamente penetrabile, pulsante di molteplici forme di culture pagane antiche e millenarie, di riti e consuetudini sedimentate quale supplenza alle delittuose, continuate assenze dei pubblici poteri. Difesa ed argine, parziale e insufficiente, frapposto all’imperante nulla. Passività, presenza dominante di un fato inesorabile che permea di sé lo scorrere del tempo, antica divinità ostile, nefasta, inalterabile, almeno all’apparenza unico, inevitabile, destino. Lo scritto di Levi è come una frustata, che incide nelle carni, che fa giustizia di ogni conformismo, d’ogni luogo comune. Poesia e pittura gli avevano fornito i mezzi per comunicare immediatamente sensazioni, idee, sentimenti e ne era scaturita una trasfigurazione espressionistica del paesaggio lucano e dei suoi misteriosi e magici volti. L’arte che poi si sarebbe dovuta trasformare in uno strumento potente di coscienza e di mobilitazione consapevole. La narrazione, nell’intero sviluppo della trama, non si esaurisce tuttavia nella cruda rappresentazione scarna del reale, ed anzi esalta, riscoprendoli, insieme alla miseria, i segni di una straordinaria e antica civiltà, eguale e circolare nei suoi riti, nell’aggiornata riemersione di trascorse, originali identità. La rappresentazione, di un tempo circolare e di un’idea, inesauribilmente e quasi ossessivamente replicata, che non smarrisce né disperde mai le specificità e la forza d’una sua storia originale, che si tramanda e si mantiene intatta tra le generazioni. Il concetto di tempo, e di circolarità che, in differenti forme, seppure similari, per vari aspetti ritornerà nell’opera di uno straordinario scrittore sud americano, Gabriel Garcia Marquez. La prosa di Levi procede sicura e rettilinea nel suo corso, con nitidezza estrema e senza smagliature. All’inizio in apparenza lenta e cadenzata, quasi dosata con cautela, in equilibrio coi ritmi ed i tempi dell’ambiente, poi sempre più sicura e coinvolgente, e poi alla fine quasi si confonde e s’integra in un corpo solo coi tratti distintivi di lirica poesia. E che- nel suo percorso- non smarrisce mai il solido ancoraggio alla rappresentazione della terra nera, all’umanità dannata che la popola in quelle contrade sperdute e desolate, di un meridione aspro e separato dall’infinito, ininterrotto fluire della storia che nel suo incessante procedere si compie. Il tema è proprio quello di consentire ai contadini, che popolano quelle terre da tempi immemorabili, di rientrare- a pieno titolo e da protagonisti- nel turbinoso corso della Storia. In tal senso, questo il contrasto netto, nelle pagine di Levi non c’è rassegnazione o resa rassegnata che prevale, quanto piuttosto un’ansia ed un potente desiderio di riscatto, antico sentimento mai placato, di una nuova, percettibile giustizia che è il tempo d’affermare nel reale. Un grande artista, ed un intellettuale, certo, ma anche e soprattutto un moderno, tenace combattente che a un certo punto sceglie con decisione, calandosi a pieno nel mondo contadino, da quale parte stare. I contadini di quelle terre arse dal sole, ed al contempo brulicanti di ogni possibile e magica bellezza superiore, invadono ed occupano con forza di nuovo il centro della scena. Monti, burroni, boschi favolosi, casolari in rovina, anfratti irraggiungibili, luoghi della memoria dell’unica guerra ( quella del brigantaggio) che in passato, con grande passione e con coraggio estremo, anche affermando in certe circostanze il proprio dominio violento con la jacquerie, avevano combattuto le classi subalterne. Ora non è più solo la denuncia, né il lamento inincidente e sterile, o la selvaggia ribellione che con una improvvisa fiammata ritiene, vanamente, di potere in qualche modo risarcire, in un istante solo, quelle figure nere, arse dalla calura, coperti di calce e di polvere di zolfo, di secoli e secoli continuati di soprusi. Un moderno combattente del pensiero che, con gli scarni e limitati strumenti a sua disposizione, con l’uso della parola scritta e della voce, coi suoi disegni ed i suoi schizzi, lavora alacremente per iniziare a ritessere una trama d’una rinnovata umanità in cerca del riscatto da troppo tempo vanamente atteso. [11] In questo intenso, convulso percorso di coscienza, grande è l’affetto e la profonda sintonia spirituale con chi si ritrova sulla stessa onda, con chi ha iniziato a sua volta a cimentarsi ed ad agire nel concreto, altrove, in modo similare. Per concorrere a definire un tratteggio ancora più compiuto di una personalità ricca come la sua è il caso in conclusione di osservare come l’opera di Levi appaia costantemente impregnata da una straordinaria ed assai intensa umanità. Ne è un esempio, che è giusto anche solo per rapidi accenni a questo punto ricordare, le frequenti attestazioni di affetto, la stima, l’amicizia, la sintonia e la solidarietà, portate ai propri amici, a quanti condividono il senso più profondo dell’azione e della battaglia che conduce. Assai forte in special modo appare il sentimento che lo lega al giovane poeta lucano Rocco Scotellaro,[12] autore di “ Contadini del Sud”, considerato il primo saggio sociologico sui contadini meridionali e de “ L’Uva puttanella”, nella cui prefazione Levi ne rappresenterà la fisionomia in questo modo :” Mi venne incontro un giovane piccolo, biondo, dal viso lentigginoso che sembrava un bambino”. Rocco considerò sempre Levi come un fratello maggiore, fu suo prezioso compagno di viaggio per le contrade e le montagne calabresi, ne condivise- nel corso della sua breve vita- l’intensa passione politica e civile. Allo stesso modo esplicative le espressioni, di grande ammirazione, verso Danilo Dolci, esempio d’impegno militante senza eguali, più volte indicato quale limpido riferimento positivo e da emulare. E’ un rinnovato senso, condiviso, di socialità, e di patria, che ai particolarismi e agli egoismi gretti antepone la superiorità dell’interesse generale. C’è la netta volontà di rientrare in piena sintonia con una nazione che finalmente, dopo le immani sciagure accumulate, ha finalmente ripreso il suo cammino ed è di nuovo in grado di scrivere una diversa pagina di storia, nel solco di una nuova idea di libertà. In “Cronache Meridionali” è esplicito il richiamo ad uomini tanto meritevoli, semplici, altruisti, generosi, a Danilo Dolci ed al suo sguardo, particolarmente ardente e appassionato. Il tema dell’Assise di Palermo, del Novembre 1957, è in tal senso, di particolare significato e pregnanza in quanto è il diritto al lavoro ed alla piena occupazione al centro della discussione. Nell’occasione si esplicita la tesi dell’urgenza d’una incisiva azione combinata, dall’alto- tramite l’azione di un governo ispirato da una visione progressiva, e dal basso, per mezzo di un’iniziativa diffusa e capillare, da predisporre e sviluppare comune per comune, con il concorso di ogni possibile energia. L’impegno collettivo dovrà portare  all’individuazione di concrete possibilità rivolte a realizzare, ovunque, considerando le specificità dei differenti punti di partenza, l’obiettivo della piena occupazione.[13] Al lavoro va ridato il valore e la centralità che per davvero ha, quello dell’affermazione della piena dignità della persona. E che si realizza solo se si dispone di quello specifico strumento inteso come affermazione di diritto universale, e da ottenere senza elargizioni da parte di clientele detentrici del potere. Il lavoro è la leva decisiva per trasformare nel profondo la realtà, mettendo finalmente fine a secoli di abusi, violenze, prevaricazioni. Tra tutte le parole usate quelle più dure ed incisive coincidono con l’atto di accusa rivolto ai ceti primi responsabili, ed unici, di ogni somma di oltraggio e di dolore conosciuto. I feudatari, figure senza tempo, rimaste eguali a quelle di mille anni prima, ispiratori cinici e mandanti di stragi ed uccisioni di gente inerme, altruista, generosa. Le frasi della madre di Salvatore Carnevale equivalgono ad implacabili sferzate, eterno atto d’accusa incancellabile. La donna, ricoperta da uno scialle e da un vestito nero, nel suo infinito, indescrivibile dolore, che richiede a gran voce la dovuta, postuma giustizia, riporta alla mente le solenni, immortali figure della tragedia greca. Il segno e l’immagine più chiara e indiscutibile che è ormai arrivato il tempo di ridare il giusto valore ai fatti, alle cose, alle parole. Il suo grido è altissimo, limpido, assoluto, e pretende l’applicazione, seppur tardiva, di quanto le è dovuto. Una madre in nero, che parla del figlio morto con grande dolcezza ed in maniera cruda, dura e spietata nella potente accusa, inarrestabile come un fiume in piena. E che più avanti apparirà, allo stesso modo, al braccio di Pertini, futuro Presidente  “un uomo giusto”, che ha accettato di rappresentarla nel processo e che a suo nome chiederà di risarcire, con atto di giustizia, quel dolore immane. Plastico e potente esempio, anche nella simbologia, di quel sentimento, antico e sempre attuale, ancora assai lontano dall’essere esaudito, di una più grande e più diffusa giustizia e libertà, la riconquista di senso di quella parola che non a caso è detta “umanità”.“ Le parole sono pietre” sono un resoconto di tre viaggi in Sicilia tra il 1951 ed il 1955;  Nessun titolo avrebbe potuto risultare più efficace, pregnante ed esaustivo. E tali senza dubbio appaiono le frasi utilizzate dalla donna in nero, Francesca Serio, la madre di Salvatore Carnevale, ucciso da mano mafiosa in un agguato. “… Francesca Serio, ferita nelle viscere sue antiche di madre mediterranea, invece di ripiegarsi su sé stessa nella tragica disperazione che l’annienta, trasferisce la sua furia nella ragione : l’urlo oscuro e il pianto si articolano in parole, le parole- quelle parole che diventano pietre- in un processo verbale, il processo verbale in racconto, essenziale, definitivo, e il suo linguaggio, rivendicativo, accusatorio, giuridico, partitico, tecnico, diventa un linguaggio storico, un “ linguaggio eroico”.[14] La madre, salutando Levi, ha chiesto allo scrittore di scrivere la storia di suo figlio, “il romanzo” della morte del suo unico figlio: “ Mi abbracciò, e la lasciai sola sulla sua sedia, con la sua voce che non si ferma, arida, eguale, nera”.[15] Altro, ulteriore esempio della possibilità concreta di realizzare finalmente il riscatto delle classi più emarginate e subalterne l’emblematico episodio di Lercara, un comune in provincia di Palermo.   Nel paese siciliano, nella miniera di proprietà di Ferrara, detto Nerone,[16] gli zolfatari indicono uno sciopero che si protrarrà per oltre un mese. Il loro primo sciopero, occasione di uno straordinario scatto di coscienza collettiva, l’esperienza che consentirà loro di entrare  “ nel mobile fiume della storia”. La causa scatenante della protesta è da individuare nel sacrificio sul lavoro di un giovane di 17 anni, Michele Felice, morto schiacciato da un sasso dentro la miniera: “ Alla busta paga del morto venne tolta una parte del salario, perché, per morire, non aveva finito la sua giornata… e ai cinquecento minatori venne tolta un’ora di paga, quella in cui avevano sospeso il lavoro per liberarlo dal masso e portarlo, dal fondo della zolfara, alla luce…. Il senso antico della giustizia fu toccato, la disperazione secolare trovò, in quel fatto, un simbolo visibile, e lo sciopero cominciò”.[17] Durò venti giorni, prima di riprendere. Ad esso si rispose coi licenziamenti di rappresaglia, (che non realizzò il suo scopo)….” Poi furono presentate precise richieste in termini di salari, assicurazioni, sicurezza, libertà di organizzazione; e continuava ancora, né si poteva prevedere come sarebbe finito”. “I lavoratori erano fieri e fiduciosi, e sicuri di vincere, e felici di essersi scoperti come esseri umani e liberi, felici di una felicità nuova, commossa e commovente su tutti i visi. Erano facce nuove, facce di oggi… fino a ieri nascoste, che vedevano sé stessi”. Frasi secche e penetranti, piene di sdegno e assai efficaci, quelle di Levi. Lo sciopero continuò, terminando col pieno successo dei minatori ed il padrone fu costretto a venire a patti cogli zolfatari. Non era mai successo prima! Da quel momento iniziò la sua decadenza irreversibile. Fu celebrato un processo contro 4 dei suoi aguzzini controllori, responsabili di gravi maltrattamenti verso i lavoratori, ed essi vennero riconosciuti colpevoli e condannati La figura di Carlo Levi si muove all’interno di un filone letterario e di pensiero che sembra avere la sua originaria ispirazione nel verismo di Giovanni Verga e che procede, in progressione, collegandosi idealmente al De Sanctis del viaggio-inchiesta elettorale lungo i sentieri dei paesi dell’avellinese, fino alle diramazioni lucane del poeta Rocco Scotellaro e siciliane del sociologo trentino Danilo Dolci che, nel suo mirabile libro-inchiesta “Banditi a Partinico”, propone un affresco di assoluto realismo e di grande intensità che fotografa il persistere di una condizione disumana da combattere, l’autentico, irrisolto degrado morale, economico, culturale della società meridionale.[18] Nel libro- inchiesta, ritagliato su un segmento della realtà siciliana, quella del triangolo collocato tra Partinico, Trappeto e Montelepre, è rappresentata, con estrema efficacia, la realtà ridotta al limite, anche in questo caso con persone costrette a vivere in abitazioni fatiscenti, più simili a tuguri, insieme agli animali, con più membri della stessa famiglia in una sola stanza, priva di servizi igienici e di una qualsivoglia forma, seppure elementare, di assistenza medica e sociale. Privati dei diritti più minuti, in stragrande maggioranza analfabeti, con rapporti di lavoro occasionali e inesorabilmente segnati da forme di spietato sfruttamento. Senza alcuna prospettiva di futuro, completamente abbandonati da uno Stato estraneo e imbelle che ne ha confiscato le speranze e che anzi di continuo si propone nell’esclusiva forma della violenta, selvaggia repressione. Lo Stato che è impegnato a fronteggiare e schiacciare il “ banditismo”, fenomeno che, nella costernazione priva di sbocchi e di bagliori, finisce per apparire ai più come l’unica, esclusiva, disperata prospettiva ”.[19] Esplicativo, in tema di illegalità imperante, il ripetuto accenno, nel fitto susseguirsi della narrazione, alle pratiche di pesca fuorilegge che, coi pescherecci impegnati a eliminare “la neonata”, con l’uso indiscriminato dello strascico, condanna i pescatori con le famiglie alla fame, alla miseria nera, alla disperazione permanente. E’ sintomatico il richiamo all’azione militante e pacifista di Danilo Dolci in quanto non ci si trova, anche in questo caso, di fronte all’inefficace e sterile denuncia, quanto piuttosto ad una dimostrazione, incisiva, del ruolo che può esercitare, nella concretezza cruda del reale, un intellettuale- depositario di un pensiero vivo- che indica strade concrete e percorribili per fuoriuscire da una condizione di emarginazione devastante. Particolarmente vivo, intenso, emozionante il sintetico racconto dell’incontro tra Levi e Dolci : “Entrammo nella casa di Danilo che ci accolse amichevole e aperto: alto, robusto, con una grossa nordica testa complessa, gli occhi vivaci dietro gli occhiali, allegro di una interna energia, sempre presente, sempre rivolto, anche nei minimi gesti, all’azione… Cominciò subito a parlarci dei lavori che gli stavano a cuore, del progetto per l’irrigazione per tutta la zona, che permetterà di cambiare profondamente la situazione e di combattere la miseria. Ci spiegò tutte le sue altre iniziative, l’asilo, la scuola, l’assistenza, la lotta contro la pesca abusiva, e le inchieste, e gli studi, le conferenze, i concerti, insomma, quella attività che conoscevamo dai suoi scritti, ma che qui prendeva ai nostri occhi la giusta dimensione…. Il tono… di un uomo che ha fiducia, che ha fiducia negli altri ( una fiducia generale nell’uomo), e fa sorgere la fiducia intorno a sé…”.[20] E’ la dimostrazione della forza di un progetto e di un’azione ispirata all’ estrema concretezza e volta a realizzare, con la costruzione di una diga, la possibilità d’irrigare le campagne. Uno degli strumenti vitali e decisivi, insieme al ripristino delle condizioni di legalità nel settore della pesca, in grado di iniziare a portare a compimento, in un quadro d’insieme di disoccupazione elevatissima, l’obiettivo della piena occupazione. E infine il ruolo, centrale e strategicamente decisivo, da assegnare all’istruzione ed alla conoscenza. L’azione per consentire ai minori l’opportunità d’imparare a leggere ed a scrivere, la possibilità di costruire gli asili e- per i cittadini d’età più avanzata- di frequentare Case del popolo ed Università popolari. Un esempio straordinario, di messa in campo di una solidarietà concreta ed operosa, agente nel reale e nell’attualità dei tempi, non certo declamazione astratta, distante, velleitaria. La prova dell’uomo che- con l’azione tenace- insieme agli altri costruisce la sua storia e il suo destino. Un riferimento, per più versi avanzato ed inconsueto, ed un modo d’interpretare e intendere una propria funzione civile, senza l’attesa d’improbabili soluzioni miracolistiche dall’alto.  Percorsi di un’azione intensa e disinteressata, più volte combattuta con forza e ostacolata, per lasciare per sempre immutate e stagnanti le situazioni antiche, così da non scalfire mai, in alcun modo, il grumo potente d’interessi accumulati. Esempi precursori, di lotte e di azioni successive che si susseguiranno, ininterrottamente, con alterne vicende di vittorie e sconfitte, nella grande stagione dell’impegno meridionalistico, in special modo in conseguenza della riforma agraria e della sua contraddittoria e complessa applicazione. Un approccio diverso, ed anzi diametralmente opposto, a quello soltanto violentemente e frontalmente repressivo, con cui si caratterizza, ormai da troppo tempo, l‘azione repressiva dello Stato. Danilo Dolci- per il suo impegno civile- verrà addirittura processato e incarcerato, ma l’atto di repressione subito, lungi dal ridimensionarne o annullarne la capacità d’azione e d’incidenza, finirà per farne risaltare ancora oltre il ruolo e la funzione. Anche nelle situazioni all’apparenza più difficili e complesse, se è l’interesse generale ad ispirare la tua azione, è possibile affermare una diversa, più giusta ed efficace prospettiva. Levi da luogo, con la sua produzione letteraria e artistica, ad una sintesi -piuttosto singolare- tra impianto neo realistico e tipo di scrittura con tratti neo barocchi.[21] Carlo Levi, ormai assai malato e quasi cieco, si spegnerà a Roma il 4 gennaio 1975 e riposerà per sempre ad Aliano, la sua reinventata Gagliano, sepolto insieme ai suoi miti arcaici, alle sue poetiche utopie, all’impegno civile profuso fino alla fine in maniera instancabile, in quell’angolo di terra di Lucania che, affinandone a dismisura la sensibilità umana, gli aveva consentito di crescere come artista e soprattutto come uomo, in quell’angolo di mondo, collocato nel meridione d’Italia, che gli era entrato indissolubilmente dentro e che ormai “….è in ciascuno di noi…forza vitale pronta a diventare forma, vita, istituzioni in lotta con le istituzioni paterne e padrone, nella loro pretesa di realtà esclusiva, passate e morte”.[22]

[1] Il “ Cristo si è fermato ad Eboli” Einaudi, Torino, 1945, avrà, più avanti nel tempo, una diffusione ancora più ampia e capillare grazie all’omonimo film diretto, nel 1979, da Francesco Rosi. Nell’opera la parte di Carlo Levi è interpretata da Gian Maria Volontè

[2] M. Alicata, Il  meridionalismo non si può fermare a Eboli”, In “ Scritti letterari”, Il Saggiatore, Milano1968, pp.309-330.

[3] Mario Alicata, Il Meridionalismo non si può fermare a Eboli,  in “ Cronache Meridionali” n.5, 1954, poi in Scritti Letterari, Il Saggiatore, 1968.

[4] L. Russo, Il pittore nella valletta amena 81961, Belfagor, a. LI, 1996, pp.55-58.

[5] Italo Calvino, nel suo Saggio introduttivo al “ Cristo si è fermato a Eboli “, Einaudi, p.IX-X invece sosterrà :” C’è nel libro un alto livello intellettuale, vi si respira la cultura europea in cui Carlo levi ha affondato le sue radici, diciamo la cultura europea fino a quell’epoca, fino alla seconda guerra mondiale; c’è la passione di sistemarne tutti i dati di un discorso coerente, e non ancora il timore di spezzare l’armonia di una sistemazione con nuove acquisizioni, con nuove messe in questione… la peculiarità di Carlo Levi sta in questo. Che egli è testimone di un altro tempo all’interno del nostro tempo”. Jean Paul Sartre, a sua volta, a pag.XV del suo Saggio introduttivo su “ Cristo si è fermato a Eboli”, osserverà che :” Egli sa farci vivere, nei suoi scritti come nella sua conversazione, al di là dei significati, il senso ambiguo della nostra epoca… In Levi tutto si accorda, tutto si tiene… per una sola ragione, l’immenso rispetto della vita”

[6] Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Einaudi, Edizione 2005, pag.3

[7] Prefazione di Italo Calvino, in C. Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Einaudi, op. cit., pp.IX-XII.

[8] Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Einaudi, Torino 1990, op. cit, pag.209

[9] Carlo Levi, Cristo si è fermato ad Eboli, Einaudi, Torino 1990, p.184

[10] Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, nota introduttiva, Einaudi, Torino 1990, op.cit., pag. 68

[11] Carlo Levi, oltre alle opere già citate nel presente testo, è autore di ulteriori ed importanti scritti tra i quali è il caso di ricordare almeno : “ Paura della libertà”, Einaudi, Torino, 1946, un’opera scritta a Parigi subito dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale. Essa contiene un’efficace analisi teorica sull’aspetto idolatrico delle istituzioni moderne, pronte a recuperare la primitiva bestialità, che genera mostri e sangue dopo aver prodotto uomini indistinti. Concetti in parte ribaditi ne “L’Orologio”, Einaudi, Torino,1950. Il libro, del 1948, è un testo sinteticamente riassuntivo della nuova situazione venutasi a creare all’indomani del crollo del regime e dell’avvento del annoso potere democristiano che segnerà nei decenni a venire la storia del paese. Il testo si concentra sul periodo intercorso dalla fine del Governo Parri alla nascita dei governi De Gasperi ed è tra le maggiori testimonianze storiche di tutto l’Italia del dopoguerra. Del 1956 è “ Il futuro ha un cuore antico”, Einaudi, Torino, 1956, un resoconto- con taglio giornalistico- di un viaggio in Russia, nel paese del “ socialismo reale”. Nel 1993, a Roma è stata allestita una delle sue numerose mostra pittoriche con lo stesso titolo del libro.  Una serie di suoi scritti, composti tra il 1945 ed i primi anni ’60, sono stati più avanti raccolti nel volume “ Le mille patrie- Uomini, fatti, paesi d’Italia”, Donzelli Editore, Prefazione di Guido Crainz, Roma 2015. Attualmente, presso il Palazzo Lanfranchi di Matera, a cura del Polo Museale della Basilicata, è possibile ammirare la bellissima mostra: “I Sassi di Matera- Viaggio in Lucania con Carlo Levi”, anche con una serie di fotografie di Mario Carbone. Un dovuto atto di omaggio alla memoria, a 40 anni dalla sua scomparsa.

[12] Giovanni Russo, “ Lettera a Carlo Levi”, Editori Riuniti, Roma, febbraio 2001, rappresenta in questo modo Rocco Scotellaro :  “ Era rosso di capelli, il viso coperto di efelidi e quando incontrava qualcuno coi capelli come i suoi lo abbracciava perché pensava che tutti quelli che avevano capelli rossi erano suoi fratelli. Il suo volto era sempre illuminato da un grande sorriso”

[13] L’intervento di Carlo Levi, tenuto al Teatro Politeama di Palermo durante l’Assise dell’1-2-e 3 Novembre 1957, sarà pubblicato integralmente nel numero 12, Anno IV, della rivista mensile “Cronache Meridionali”, Napoli, Gaetano Macchiaroli Editore, stampata nel dicembre 1957.

[14] Prefazione di Vincenzo Consolo a: Carlo Levi  “ Le parole sono pietre”, Giulio Einaudi Editore, 1955, 1975, Prima Edizione “Saggi”, pag.XII.

[15] Carlo Levi, “ Le parole sono pietre”, Einaudi, op. cit.; pag.156.

[16] Carlo Levi “ Le parole sono pietre”, op. cit., pag. 51

[17] Carlo Levi, Le parole sono pietre, Prefazione di Vincenzo Consolo, p.X., Einaudi, Torino, 2014

[18] Danilo Dolci, Banditi a Partinico, prefazione di Norberto Bobbio, Sellerio editore, Palermo, 2009. Il libro appare per la prima volta nel 1955.

[19]  Un tema che in parte almeno ritorna anche in “ Tutto il miele è finito”, Prefazione Giulio Ferroni, Editore Ilisso, Collana Biblioteca Sarda, 2003.  Un ritratto scarno ed efficace della Sardegna, isola di particolare fascino e bellezza, seppure profondamente segnata, comela Lucania, da una condizione sociale di estrema povertà. L’autore vi aveva fatto un viaggio nel maggio del 1952, per poi ritornarci dieci anni dopo, nel 1962. Il libro è un resoconto ed una raccolta d’impressioni personali.  Vi si rappresentano, insieme, arcaicità e modernità, la pastorizia e l’industrializzazione, i diversi linguaggi del banditismo e degli operai che si confrontano in un impasto equilibrato di analisi sociale e di osservazioni letterarie. Anche in questo caso è il paesaggio a conquistare con vigore il centro della scena. Il mare, i luoghi incantati di querce secolari, le immense strade aride e deserte, la solitudine pastorale, le antiche e splendide chiese. Ed al contempo un diffuso contesto di illegalità, coperto e tollerato dai pubblici poteri.

[20] Carlo Levi, “ Le parole sono pietre”, prefazione di Vincenzo Consolo, Einaudi, 1955, 1975, 2010, pag.121.

[21] Carlo Levi, Quaderno a cancelli,  Einaudi, 1979, la raccolta di scritti, frammenti, versi, ricordi dell’infanzia piemontese, composta tra il 1973 e gli inizi del 1975, verrà pubblicato dopo la sua morte.

[22] Carlo Levi, L’autore all’editore, in “ Cristo si è fermato a Eboli”, op. cit., pp.XVIII-XIX