Ricordare Pasolini
Angelo Cennamo
La notte tra l’uno e il due novembre del 1975, all’idroscalo di Ostia, veniva ucciso, in circostanze tuttora poco chiare, Pier Paolo Pasolini. Di quel giorno conservo un vago ricordo fatto di immagini frammentate, in bianco e nero. Le prime che i telegiornali della rai, gli unici del tempo, mandarono in onda non appena si diffuse la notizia. Il fango, le pozzanghere, le baracche di quel luogo così povero e desolato rendevano bene l’idea dello squallore e della tragicità dell’evento annunciato. Ma anche il contesto dove Pasolini aveva ambientato tutta la sua parabola di uomo e di narratore: la periferia. Avevo 7 anni e di quell’uomo dal volto scavato e dai grossi occhiali scuri, ucciso così barbaramente, non ne sapevo nulla. Sicché scoprii la sua esistenza – l’esistenza del poeta Pasolini – proprio mentre il telegiornale dava l’annuncio della sua morte. A distanza di 40 anni da quella tragica notte, l’Italia piegata dal malaffare e dalla corruzione, l’Italia precipitata nel peggiore degrado culturale e politico che abbia mai conosciuto, riesce sorprendentemente a trovare un guizzo, un sussulto di dignità e di orgoglio per ricordare la sua figura ( e non quella di Calvino, del quale pure ricorre il trentennale dalla morte) e per riaffermare il senso e il valore della sua opera a beneficio delle nuove generazioni. Rileggevo le prime pagine di “Ragazzi di vita”, uscito in questi giorni in allegato con il Corriere della sera, e riflettevo su quanto la vicende personali di Pasolini: l’omosessualità, i vizi e i processi collegati in parte anche a quel vissuto così scandaloso e trasgressivo, abbiano finito per sovrastare la bellezza e l’unicità della sua produzione letteraria e cinematografica, relegandola ad una ingenerosa collocazione di nicchia. Non mi sorprende che sia potuto accadere in un Paese bigotto, ipocrita e provinciale come il nostro. Dove perfino la cultura diventa motivo di scontro politico o, se preferite, tifo da stadio, tra destra e sinistra. Figurarsi poi negli anni settanta. Ma perché dopo tutto questo tempo dovremmo ricordare Pier Paolo Pasolini? E qual è il valore dell’eredità che ci ha lasciato? Una risposta a questa domanda possiamo trovarla negli “Scritti corsari”, la raccolta degli editoriali che lo scrittore eretico pubblicò proprio sul Corriere di Piero Ottone. A cominciare dal più noto “Io so”. E’ l’eterna attualità delle sue opere la ragione per la quale ci piace ricordare Pasolini. L’immutata freschezza delle analisi sociologiche, oltre la profondità, la poesia e la modernità dei suoi romanzi e dei suoi film. Oggi, a distanza di quarant’anni dalla morte, Pasolini ci manca moltissimo. Ci manca la ferocia e il coraggio delle sue invettive. Ci manca l’anticonformismo con il quale combatteva l’omologazione e l’appiattimento della cultura di massa. La stessa che per quarant’anni lo ha collocato ed archiviato nel reparto imperioso degli intellettuali di sinistra. Lui che negli scontri di Valle Giulia difese i poliziotti figli di contadini contro gli studenti “proletari” figli di papà. E che storceva il naso di fronte a capelloni e cantanti beat. Non ha fatto in tempo, Pasolini, a completare la sua mutazione genetica da integralista di sinistra ad eretico reazionario, nel solco di un’altra grande scrittrice e giornalista del suo tempo: Oriana Fallaci. Resta però il ricordo e la traccia indelebile di un’artista intorno al quale questo Paese così sgangherato, alla disperata ricerca di simboli e di modelli positivi, fa bene a stringersi per ritrovare un’identità forte, consapevole, e per salvarsi da un imbarbarimento che sembra non avere fine. Foto wikipedia.org