Suttree – Cormac McCarthy
Angelo Cennamo
“Eccoci arrivati in un mondo dentro il mondo. In queste lande straniere, queste foibe e sodaglie interstiziali che i giusti vedono dalle auto e dai treni, un’altra vita sogna”. Knoxville, Tenessee, un uomo fugge dai suoi affetti più cari e si trasferisce in una baracca su un fiume. Il suo nome è Cornelius Suttree. Come un randagio solitario, Suttree sopravvive pescando pesci gatto che rivende in città, in quel mercato che sembra “un lazzaretto di generi alimentari e flora e umanità menomata”. Il suo mondo è un girone dantesco popolato di ladri, negri, ubriaconi e puttane. Una fauna di derelitti e di balordi con vissuti di galera e di grande sofferenza che incontra navigando con la sua barca e nei bar sgangherati di quella landa oscura fatta di “anonime costruzioni di carta catramata e lamiera, abitazioni fatte di nudo cartone e pisciatoi di assi traballanti inghiottiti da un turbinio di mosche”. Le giornate di Suttree sono un susseguirsi di ore avvilenti, oberate di una fatica inconcludente e precaria, tra i rottami squallidi di quella campagna povera, spettrale, sulle sponde di un fiume sporco ma vitale che scorre silenzioso oltre ogni solitudine, e “sotto il flusso dell’acqua cannoni e affusti, orecchioni incagliati che arrugginivano nel fango, barche a chiglia decomposte in mucillagine. Leggendari storioni dal corpo corneo e pentagonale, pesci gatto e carpe cupree e lucenti come lasche, con il loro ventre pallido e senza sprue, una densa fanchiglia tempestata di vetri rotti, ossa e barattoli arruginiti e cocci di stoviglie venate di crepe nere di fango“. In mezzo a quella brodaglia e a quegli scarti Suttree è “come feccia sul fondo di un calice”, un uomo che non ha propositi, né di tornare da dove è venuto né di raccontare quello che ha visto. Il suo è un girovagare senza fine e senza meta che un giorno lo porterà ad abbandonare definitivamente quei luoghi palustri, prossimi ormai alla contaminazione di una nuova civiltà urbana “camminando per l’ultima volta lungo quella stretta strada si sentì scivolare di dosso ogni cosa. Finché non gli rimase più nulla di cui disfarsi. Era tutto scomparso. Nessuna scia, nessuna traccia“. Io, vagabondo che non sono altro. Se non ha mai letto Cormac McCarthy della letteratura non hai capito nulla, disse una volta David Foster Wallace a un amico regista, al quale suggerì di fare di questo libro una trasposizione cinematografica. Chi ha conosciuto il McCarthy di Merdiano di sangue, Cavalli selvaggi, La Strada, leggendo Suttree – romanzo del 1979 tradotto in Italia solo 30 anni dopo – scoprirà una versione completamente inedita del grande maestro di Providence che Harold Bloom indica tra i superquattro viventi con Delillo, Pinchon e Roth, per via di uno stile tutt’altro che asciutto ed essenziale al quale McCarthy ci ha abituati con i suoi straordinari racconti western. Al contrario, Suttree è un romanzo dalla prosa rigogliosa, massimalista, argomentativa, e soprattutto poetica, ricca di metafore e di descrizioni suggestive che sembra aver lasciato una traccia profonda nella letteratura recente: “L’ombra dei fili della luce disegna arpe gotiche sulle porte degli scantinati” – “I tergicristalli disegnano arcobaleni neri sul parabrezza luccicante dei taxi (Infinite Jest – David Foster Wallace). La storia di Cornelius Suttree è romanzo senza trama e senza un vero finale. Un diario o un lungo flusso di coscienza che ci ricorda l’Ulisse di Joyce e in alcuni passaggi anche la Divina Commedia di Dante: “particella di materia attonita che si essicca nel fango conciante, la terra damnata della defunta alchimia cittadina”. Un’opera superba dalla scrittura ricercata, immensa ed inimitabile.