Unga, farina
Padre Oliviero Ferro*
A vederla così bella bianca, fa piacere. Ma, a pensarci bene, quanto lavoro ci sta dietro. Quanta fatica hanno fatto le mamme per renderla così bella. Hanno sudato tanti giorni, coltivando i campi, fin dal mattino presto, a chilometri di distanza dalla loro casa. Hanno sognato il giorno in cui l’avrebbero avuta così bella. Ma, nel frattempo, a colpi di zappa, hanno dissodato la terra, hanno tolto le erbacce e hanno piantato la manioca. Poi, quando era cresciuta, hanno tolto il tubero e sulle loro spalle l’hanno portata a casa, magari con l’aiuto di un taxi e delle figlie più grandi. Poi, le hanno tolto la corteccia e hanno messo il tutto nell’acqua per far togliere il cattivo gusto. Infine, l’hanno messa a seccare al sole. E poi, ancora, l’hanno ridotta in pezzetti e hanno cominciato a pilarla nel pestello insieme ad altre donne. Chi poteva, la portava al mulino, dove si ritornava tutte bianche le nostre mamme nere. Ma non erano ancora finita. Bisognava accendere il fuoco, mettere una bella pentola con l’acqua e quando bolliva, tuffarvi la farina. E poi, e poi…quando era quasi pronta, bisognava rimestarla come la polenta. Ci voleva molta forza. C’era molto caldo, ma si continuava. Finalmente era pronta e veniva versata in grosse bacinelle, mentre su un altro focolare si faceva bollire l’olio di palma con i pomodori e le cipolle. Quando era tutto pronto, la si portava a tavola e tutti, facendo una piccola pallottolina, la intingevano nella salsa e se la mangiavano con gusto(!). E le mamme? Guardavano contente il frutto del loro lavoro. Poi, se ne avanzava, anche loro gustavano e così riprendevano forza per la prossima volta.
*missionario saveriano