L’angolo della lettura: “La confraternita dell’uva” di John Fante

Angelo Cennamo

Tutti i romanzi di John Fante sono autobiografici. Fante cambia i nomi ai personaggi, talvolta ai luoghi, adatta fatti e circostanze alla trama del racconto, ma in ogni pagina dei suoi libri ritroviamo brandelli di vita vissuta, sogni, ambizioni, molti dei suoi incontri avventurosi, la passione per la scrittura, l’attaccamento alla famiglia. La confraternita dell’uva, pubblicato nel 1974, segna il momento più alto della popolarità dello scrittore italo-americano: milioni di copie vendute in tutto il mondo e l’interessamento di Francis Ford Coppola per una versione cinematografica. Qualche anno dopo, accecato dal diabete, Fante detterà il suo ultimo libro Bunker Hill alla moglie Joyce, prima di congedarsi dai lettori e dalla vita. La confraternita dell’uva è la storia di quattro italiani, vecchi e ubriaconi, tra i quali si erge la figura di Nick Molise, padre di Henry, scrittore di successo e alter ego di Fante. “Nick Molise era qualcosa di più che il capofamiglia. Era giudice, giuria e carnefice. Geova in persona. Non gli piaceva quasi niente, in modo particolare sua moglie, i suoi figli, i vicini, la chiesa, lo Stato, il suo paese, il paese dal quale era emigrato. Non gli importava un fico secco del mondo intero. Ma le donne gli piacevano. Gli piaceva pure il suo lavoro e una mezza dozzina di paisani che, come lui, erano italiani del genere dittatoriale”. Nick si definiva un impresario edile, ma Henry era abituato a considerarlo uno scultore perché aveva costruito e modellato mezza San Elmo, il suo Louvre a cielo aperto, il borgo californiano dove vive con la moglie e gli altri tre figli. Nick era stato un muratore superbo, veloce e preciso, il primo scalpellino d’America, ma anche un tipaccio burbero che non ha mai sopportato la fuga di Henry dal suo mondo di mattoni, malta e cazzuole, per abbracciare la letteratura: che razza di lavoro è quello dello scrittore? Ma a cinquant’anni e nel pieno della popolarità, Henry torna a San Elmo. Il suo sarà un viaggio a ritroso nel tempo attraverso il quale ritroverà la propria giovinezza e la vecchia casa italiana con gli odori e i sapori della terra d’origine “la cucina era il vero regno di mia madre, l’antro caldo della strega buona sprofondato nella terra desolata della solitudine, con pentole piene di dolci intingoli che ribollivano sul fuoco, una caverna di erbe magiche, rosmarino e salvia e origano. L’altare erano i fornelli, il cerchio magico la tovaglia a quadretti dove i figli si nutrivano”. Piatti succulenti della tradizione mediterranea sui quali scorre il vino rosso di Angelo Musso, personaggio straordinario che Fante ci descrive come un uomo basso, tarchiato, pelato e senza voce a causa di un tumore alla laringe. Musso parla a gesti, sorride, annuisce e soprattutto beve, beve in continuazione come gli altri della confraternita: Zarlingo, Cavallaro, Antrilli. E come Nick Molise, che di quel nettare prelibato non può fare a meno, neppure quando il medico glielo proibisce. Il vecchio padre padrone convince Henry a rimandare la partenza per salire insieme a lui in montagna e realizzare l’ultimo lavoro.  I due si avventurano con un furgone scassato alla volta delle Sierras, dove trascorreranno la settimana più intensa della loro vita e avranno modo di conoscersi come non avevano mai fatto prima. La confraternita dell’uva è un romanzo sulla migrazione e sul rapporto tra padre e figlio. Una storia commovente, venata di comicità, e molto italiana. Il miglior libro di John Fante.