Conosciamo l’uomo africano
Padre Oliviero Ferro
Mi ha sempre meravigliato, quando passavo vicino a una capanna in costruzione, sentire la frase, rivolta a chi lavorava “Du courage, hodari, coraggio”. E mi chiedevo che significato avesse. Ragionando all’europea, mi dicevo che invece di incoraggiare a parole, avrei dovuto fermarmi e dare una mano concretamente. Poi ho capito che era un modo di dire che, se anche non potevo aiutarlo, gli ero vicino e facevo mia la sua fatica. Certo, il vedere gli uomini, i papà che si sporcavano per fare i mattoni con il fango o con l’argilla per costruire, mi faceva molto pensare. Non si curavano della fatica, perché sapevano che preparavano la dimora per una famiglia, forse anche la loro. Infatti era normale l’aiutarsi. Poi qualcuno andava dove c’erano molte erbe e con il machete le tagliava. Poi venivano annodate per poter coprire il tetto. Chi aveva qualche soldino da parte, comperava le lamiere “teke teke” (sottilissime), così da non bagnarsi subito. Ma poi ci pensava il vento a mettere a dura prova il lavoro di questi ingegneri improvvisati. Allora, anche con la pioggia, bisognava ricominciare il lavoro. Un po’ brontolando contro il tempo, però asciugandosi il sudore, si riprendeva il lavoro. Ed era quello che succedeva a quelli che andavano a pescare. Una tempesta, un gruppo di ippopotami dispettosi, un vento un po’ forte rischiava di rendere inutile la fatica di una notte. Ma bisognava andare per potere portare a casa qualche soldo per la famiglia: per mangiare, per i vestiti, per la scuola, per pagare le tasse, per bere, ogni tanto, qualche bicchiere di birra. Spesso i ragazzi più grandi, dopo la scuola, andavano ad aiutare il padre nel lavoro dei campi. Tutti dovevano collaborare e l0educazione diventava molto concreta. Ce lo ricorda un proverbio africano, sempre del Congo “se il padre non ha dissodato, il figlio non erediterà un campo”, cioè se il padre non ha preparato il futuro dei suoi figli attraverso una adeguata educazione, questi vivranno senza onore e dignità. Il padre aiuta i figli a dividersi le responsabilità (il padre costruisce la casa, la madre si occupa dei figli), come dice un proverbio rwandese “il toro genera, ma non urla dietro ai piccoli”. C’è un’immagine, tra le tante, che mi ha sempre colpito. Una volta alla settimana, con il cuoco, andavamo al mercato a comperare la carne (un quarto di mucca) che poi mettevamo al fresco nel frigorifero a petrolio. Molta gente andava e veniva per la strada. C’era sempre qualcuno con una bicicletta, di solito die giovani, dei papà, che andava a vendere le banane. Un giorno ho provato a contare quanti caschi di banane aveva sulla bicicletta: 10. Non so come facesse e come stessero in equilibrio. Certamente era faticoso, quando doveva affrontare la strada in salita. Eppure, come dice un altro proverbio congolese “l’elefante non si stanca mai di portare le proprie zanne”, facevano tutti i sacrifici possibili per permettere ai figli di crescere, di sognare un futuro migliore. Certo ogni tanto, dopo la fatica del lavoro, si fermavano e condividevano qualche bicchiere di birra di banane e parlavano, parlavano, parlavano. Avevano tante cose da raccontarsi e se tu volevi conoscere un po’ la loro vita, ti mettevi vicino a loro. Accettavi un bicchiere e anche tu potevi raccontare un po’ della tua vita, quella dei tuoi genitori, del tuo paese. Non ci si stancava. Ogni tanto facevo notare che forse a casa qualcuno li aspettava: la moglie, i figli. Mi guardavano divertiti, come per dirmi “padre, ma dove vivi? Qui è l’uomo che comanda, non lo sapevi?”. E io rispondevo: “può darsi, ma se vuoi mangiare, devi chiedere a tua moglie, alle tue figlie, altrimenti come riempi lo stomaco?”. E qui finiva il discorso…