Tullio Gregory, filosofo del cibo
Aurelio Di Matteo
Un altro grande rappresentante della cultura e del pensiero filosofico ha smesso di vivere, all’età di novant’anni. Giustamente e doverosamente tutti i media hanno dato rilievo alla dipartita del prof. emerito Tullio Gregory, “insigne figura di intellettuale e studioso, profondo conoscitore del pensiero dell’età medioevale e moderna”, per usare le parole del Presidente Mattarella. Ed è ricordato dal grosso pubblico, soprattutto dagli studenti liceali, di oggi e di ieri, per aver firmato una Storia della Filosofia, forse la più adottata nelle nostre scuole. Di sicuro i cultori della filosofia citeranno tra i suoi lavori più importanti e più conosciuti, che anch’io lessi negli anni universitari – Platonismo medievale e Studio su Gassendi. Ovviamente chi opera nel cosmo della filosofia, citerà il suo recente Michel de Montaigne o della modernità. E di seguito magari i suoi molteplici impegni nel mondo culturale ed editoriale italiano.
Non meno doveroso è ricordare che fu l’animatore di quell’evento unico, di rilievo internazionale, che è l’equivalente del San Remo della canzone. Il Festivalfilosofia è uno dei più significativi eventi culturali che dal 2001 si ripete ogni anno nei comuni di Modena, Carpi e Sassuolo. Lo cito e lo ricordo in queste brevi note, non tanto per il suo rilievo di vetrina del pensiero filosofico nella sua diversificata espressione, ma perché fin dalla prima edizione ha visto il prof. Gregory protagonista e animatore di una sezione dedicata alla cucina filosofica. L’ultima edizione del settembre 2018, dedicata al tema della “Verità”, ha visto declinare la tematica attraverso un cammino gastronomico titolato La verità è servita, in cui si presentava una serie di coerenti menù, preparati dai ristoranti dei tre Comuni, che ripercorrevano le tipicità del territorio emiliano. Il percorso gastronomico delle verità prime, ma anche quello dell’unità nella molteplicità, che si manifesta a tavola, delle verità edeniche e così di seguito, fino a giungere al percorso del in vino veritas.
Non so quanti sappiano che egli era un raffinato gourmet, esigente in ogni ristorante, ancorchè “piantagrane”, almeno così si narra. E soprattutto grandissimo ed intransigente critico della cucina che non sappia valorizzare le sedimentazioni antropologiche che si riflettono nell’elaborazione culinaria.
Proprio in occasione dell’ultima edizione del Festivalfilosofia ebbe a dire in una intervista: ”È a tavola che forse troviamo quella verità intera, piacevole, morbida, profumata che possiamo non solo contemplare ma gustare, come volevano i mistici medievali. A tavola noi abbiamo la manifestazione e il trionfo dell’assoluto, del bene, del buono, del bello nelle sue storiche determinazioni”.
È la grande tematica della tradizione culinaria in cui il cibo cessa di essere un bisogno per diventare la materia sulla quale si esercitano la creatività di un progetto conviviale, il percorso intellettuale di un territorio, la ritualità di un evento religioso o laico
Non è sufficiente che una cosa sia commestibile perché venga effettivamente mangiata. Ciò accade solo se i parametri mentali di una società o di un gruppo sociale o, anche, di un individuo lo consentono.
Il modo di rapportarsi al cibo è quell’insieme di atteggiamenti che esprimono il messaggio sociale, culturale e politico di un gruppo; è la sedimentazione dei modelli di comportamenti nei quali una civiltà mostra valori ed ideologie, differenziazioni civili e rapporti politici.
L’atto alimentare è qualcosa di estremamente articolato, quasi uno specchio magico in grado di riflettere la vita dell’uomo, la sua cultura, la sua psicologia, i rapporti che egli intrattiene con se stesso e con gli altri. Nella cultura dei popoli il cibo riveste un’importanza fondamentale perché diventa uno strumento rappresentativo e metaforico dei valori. Per questo motivo l’assunzione del cibo si è sempre riempito di significati diversi dal semplice bisogno fisiologico e nutrizionale. Nel famoso saggio “Pour une psycho-sociologie de l’alimentation contemporaine”, Roland Barthes definì il modo di alimentarsi come un “sistema di comunicazione”.
E il prof. Gregory non poteva non essere un acerrimo nemico del minimalismo culinario, della cucina diventata esercizio calligrafico o, come a me piace denominarla, del “piatto vuoto”. Insomma la cucina da beauty farm, quasi un residuo della santa anoressia medioevale.
Nello stesso tempo non meno critico era per l’ormai invasivo e decantato fast-food, con le sue orribili e maleodoranti fritture, al cui insopportabile (dis)gusto non è possibile unire nemmeno un pizzico di estetica (del gusto), che almeno ce le farebbe ammirare.
Il mio incontro di lettore con il prof. Gregory, quale esperto e filosofo della cucina, avvenne alcuni anni fa, leggendo un piccolo suo saggio Per una fenomenologia del gusto, (pubblicato in L’attimo fuggente, n.1/2007). E lo citai, servendomi di alcune sue illuminanti osservazioni, nella stesura di un capitolo, Bello da gustare, della pubblicazione – Il cibo parla – fatta quando ero Preside dell’Istituto alberghiero di Salerno e di Gromola.
La passione per la cucina del prof. Gregory non era qualcosa che si aggiungesse o stesse accanto alla ricerca filosofica. Ne costituiva un capitolo in cui estetica e gusto, storia e società si rispecchiavano nella reciprocità delle significazioni e delle azioni. E i grandi filosofi non hanno disdegnato di mettere insieme gusto e bellezza, bellezza ed etica.
Nel notissimo dialogo di Platone, alla specifica domanda di Socrate, Ippia evita di individuare i principi del Bello ed elenca una serie di esempi concreti, quali modelli. Da questi modelli, con operazione intellettuale, attraverso un giudizio si dedurrà il criterio del bello o del “preferibile”. Il problema del bello è una questione di scelta, di elezione di modelli. È, insomma, una questione di gusto!
A me sembra proprio che Ippia avesse ragione. “Il bello per il gusto” non è ciò che partecipa di un criterio precostituito di bellezza, ma ciò che attrae senza motivo, ciò che provoca la scelta e che s’impone e diventa modello. D’altra parte, che altro è una ricetta?
Una ricetta è come un quadro, una poesia, come la partitura di un’opera musicale, nella quale c’è tutto: armonia ed emozione, ordine e sensazione, voce e colore, attesa e memoria. In una ricetta c’è il passato ed il futuro, la storia personale e quella sociale, le proprie radici e le proprie fughe, il territorio e lo spazio, la vita e la morte. Insomma, c’è la grande filosofia, come quella che ci ha illustrato il prof. Tullio Gregory.
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