La poesia di Francesco Terrone tra finito e infinito
Fabio Dainotti
Francesco Terrone appartiene a quella generazione protesa alla ricerca di un senso, superando la tentazione nichilistica di tanta parte della poesia rimasta fedele al novecentismo. È quanto ci è dato constatare a una disamina critica delle sue opere, a principiare da Via Crucis, meditazione sulla passione di Gesù, del 2012 (IRIS). Vorrei soffermarmi su un verso che mi sembra significativo; l’io è diviso tra cielo e terra, tra bene e male, tra finito e infinito, tra spinta all’elevazione e illecebre del fascino muliebre: “Il mio sguardo/incerto/si divide tra cielo e terra”. La figura retorica che segnala questa dicotomia è l’antitesi, che si accampa in moltissime composizioni di questo e di altri successivi libri. E che da sempre rappresenta il segno di una lotta interiore, l’inquietudine esistenziale dell’uomo davanti a un bivio fondamentale. D’altronde il mistero della croce è a un tempo umano e divino, come giustamente osserva nella Presentazione monsignor Giuseppe Agostino. E c’è un altro contrasto: tra l’uno e i molti, tra il Cristo deriso e sputato e il “corteo di ciechi”.
In questa sua opera il Nostro autore ha saputo trasfondere vicissitudini esistenziali e senso morale. Nella sezione “Poesie e canti religiosi”, che chiude la raccolta, e a cui appartengono anche i versi citati in apertura, si affaccia un’altra figura, l’adynaton, a dire la difficoltà di diffondere messaggi di pace in un mondo degradato e sconvolto. E che “tutto accada” è più una speranza che una certezza acquisita. Non mancano le poesie degli affetti familiari, il ricordo del padre, felice del conseguimento da parte del figlio della meta, per cui tutta una vita è stata spesa. C’è inoltre un’apertura all’Altro nel segno della carità (Miracolo. La religiosità di Terrone si riflette nelle caratteristiche del discorso fervido e concitato, spezzato nei soprassalti della preghiera e della confessione, che si riscontra in Preghiera. “L’animo di Francesco Terrone si rivela quanto mai prensile e aperto alla realtà che lo circonda, soprattutto se gli consente di respirare a pieni polmoni l’aria della natura”, scrive Fulvio Castellani nella prefazione alla silloge Sogno di una farfalla, (Otma edizioni, 2013), dove rirorna l’anelito religioso, se è vero che la farfalla, definita “un angelo” nella lirica intitolata Piccole farfalle , può simboleggiare l’anima ed è essa stessa sospesa tra cielo e terra, come anche le rondini che “dipingono cuori nel cielo”.
Il poeta fa della poesia un’espressione della propria intimità e la confessione di un delirio amoroso (Muschio selvaggio), dove l’amore- passione si acuisce in una lontananza che rende vigili anche i sensi (Respiri di sabbia), ma si fa anche paladino nelle lotta contro le ingiustizie, assumendo un tono gnomico e sentenzioso nelle considerazioni di carattere sociologico. Il rapporto con l’amata è tensione dialogica per l’urgenza delle domande senza risposta (La mia presenza), e desiderio di penetrare nel “mistero senza fine bello” dell’animo femminile, durante gli alti e bassi di un amore, in cui l’attesa felicità è simboleggiata dal ritorno del sole (Alberi fioriti); ma si veda anche Viverti . Quest’amore, che può rendere eterni in Risate, si presenta anche nel binomio amore-morte in Spina di rosa. Amore è anche un modo per reclamare la gioia della paternità, la “possibilità di stringere fra le …braccia un bambino…frutto dell’amore”. Ma può anche diventare recita in un palcoscenico, come si legge in Sorrisi e menzogne. Viene il tempo del disamore, quando una spada “trafigge il cuore” e quando il suono desolato provocato dal vento, attraverso tubi di latta, fa pensare a “canti di piccoli cigni/lungo le rive del lago senza più vita”.
Riappare la figura della farfalla già nel titolo anche nel successivo volume Papillon (Areablu, 2014), così come qualche celeste abitatore del cielo, come le rondini, o gli “uccelli /cinguettanti”, in quella zona intermedia “tra la terra ed il cielo/tra nuvole e fili d’erba” (Goccia d’acqua), in quel regno delle nuvole, che sembrano “Mandrie di cavalli”. La raccolta si apre e si chiude nel segno dei pensieri vagabondi e del sogno. La ricerca della solitudine appare come un rifugio e uno scampo dalle delusioni (Un cuore), ed esiste anche, pascolianamente, una solitudine delle cose. Ma preferibile è la compagnia della persona cara, che cammina “a piedi nudi/ nella neve” (Quel respiro in più). Molto interessanti le dichiarazioni di poetica, consegnate eminentemente alle liriche Emozione, e Fiumi di parole, dove si predilige la poesia “passionata”; una poesia di fiori, di profumi e di colori, ma dove anche il brutto e il deforme han giustamente diritto di cittadinanza, come in Lanterne ingiallite : “Di notte/ lungo i sentieri colorati/ da lanterne ingiallite/ciò che vedi, ciò che senti/è un rotolio di scatole di latta/gatti e gattacci/che inseguono ratti imbruniti/da sporcizia e fetore…”
Anche qui la donna, sempre evocata più che descritta nei dettagli o nei particolari fisici (si ricorda solo il colore degli occhi, “due immensi prati verdi”), si presenta di volta in volta come una creatura volubile, “perfida”, una “femmina senza cuore”, la cui assenza provoca sofferenza nel cuore dell’amante, ma anche creatura sensibile, come mostrano le lacrime rivelatrici dell’amore che le rigano il volto. Luca Cipriano nella prefazione osserva: “La tensione che anima le poesie del Terrone risente a tratti della sua formazione non umanistica, che si estrinseca nella perfetta scansione dei tempi, delle immagini, degli incastri tra il pensiero e la sua esternazione”. Coeva è la pubblicazione de Le parole degli eroi. Testi di Francesco Terrone, musica originale di Francesco Perri, Nuova Santelli Edizioni. Il libro è composito, cioè formato di tre parti. Una prima parte contiene le lettere dal fronte, che Terrone ha “trovato, riscritto, integrato”, anche “dalla trincea della sua anima”, citiamo dall’Introduzione di Terrone e Perri.
Dalle missive scritte dai militi durante la Grande Guerra e indirizzate a mogli fidanzate famiglie, emerge in tutta la sua drammatica verità la tragedia delle guerra con la sua teoria insensata di distruzione e di morte. Le lettere, toccanti nella loro semplicità, traboccano dei sentimenti elementari di queste persone umili, ma sono anche documento interessante del periodo storico in cui “calabresi e siciliani, citiamo dalla Presentazione di Luigi Michele Perri, cominciarono a imparare l’italiano, scoprendo che c’era una lingua, oltreché una guerra, che ne affratellava i destini con quelli di tutti gli altri”, come emerge già dalla prima lettera dal fronte, dove si legge: ho conosciuto…un napoletano che mi fa tanto ridere; ho conosciuto…un bravo ragazzo, un milanese che ride ogni anno bisestile”. E in un’altra epistola: “Lì non conta la nazione, il gruppo sanguigno, non conta nulla: conta la croce ed il silenzio della morte”. Sono anni di difficoltà economiche e di stenti: “cerco di mettere da parte la povera paga che mi danno, così posso darvi una mano per comperare la medicina che occorre”, leggiamo nella seconda lettera. La guerra è fonte di ansia per i ragazzi in trincea, messi a dura prova dai “lamenti strazianti di amici e nemici, come scrive un altro soldato, aggiungendo un particolare toccante: “c’era chi invocava ancora la mamma”. Per concludere, consolando la fidanzata che aveva perso la zia:”So quanto ci tenevi a quella donna che, per farti sentire donna, ti chiamava sirena; sì, perché la donna con il suo canto fa fiorire, fa morire un uomo, un’orchidea” .
Dove si sente la mano dell’autore, che questi testi ha scelto e rielaborato. Un altro scrive: “Siamo morti dentro” e prosegue con una scena patetica: “Più in là c’è il cane di Uliviero: sta lì accucciato e veglia la salma del suo orgoglioso padrone; vuole morire anch’esso”. Tutto questo in uno stile secco e paratattico, che poco concede agli abbellimenti retorici e fa risaltare i fatti nella loro tragica nudità: la presenza incombente della morte, gli affetti familiari e l’amore con il suo corredo di nostalgia e gelosia, ma anche il cameratismo e la consapevolezza di essere come granellini di sabbia “nel deserto della vita”. Perplessità del cuore e tendenza al sogno irraggiungibile, alla rivisitazione di un ricordo che ha la tenacia delle cose che potevano essere e non sono, sembrano dominare nella raccoltina Campo de’ Fiori, che si avvale della prefazione di Aldo G. Jatosti e della postfazione del curatore Giuseppe Diana. La parola “sogno” infatti ricorre spesso. La donna, “dagli occhi color del mare” è qui una figura a tratti salvifica, è angelo (Buon mattino), evoca “immagini sacre” (Per sempre), dà la vita e, in Donna fiore e in La tua saggezza, alimenta la speranza; è la guida di un poeta “impaurito e tremante”; ma sa anche farsi sirena ammaliatrice, per sedurre nel gioco amoroso l’amante, in un rapporto che non è solo sognato ma vive dei fremiti ardenti della passione (Nel silenzio).
L’amore è pazzia, provoca anche tormento e chi dice io nei testi è tentato dal pensiero di evitarlo, di rifuggire dalla paura e dai sensi di colpa (Raggio di tormentato sole), anche perché si rende conto di esserne diventato schiavo (La tua voce); ma apre anche spiragli sull’eternità, diventando amore per l’altro in un afflato universale. Si avverte la sensazione di perdita di centro, ravvisabile nell’accostamento di cose estremamente piccole ed estremamente grandi (L’istinto dell’amore). Nella silloge trovano spazio anche riflessioni di stampo filosofico sulla natura del sentimento amoroso (Imperfezione d’amore). Dal punto di vista stilistico, si nota il ricorso all’anadiplosi e alla metafora (efficace, anche se usitata, quella della nave in un mare in tempesta).In successive raccolte come in Tra i miei sogni , che è del 2017,si nota la tendenza, propria della poesia, all’astrazione. Nel breve e illuminante saggio introduttivo, scrive Gualtiero De Santi: “Francesco Terrone…punta in questa sua raccolta sulle trazioni e sulla dialettica del sogno” e parla di “dialogo costantemente franto e altrettanto tenacemente riavviato”, riscontrando nel suo “ambito ispirativo… una intima e umbratile timbratura”.
Anche Enzo Concardi, nel commento in calce a una poesia contenuta nel librino, parla di “amore dialogico”. Commenti a piè di pagina anche di Fabio Amato, che parla di “amore totalizzante” e di Sandro Angelucci. Il volume è impreziosito dai dipinti e dalle opere artistiche di Franco Ruggiero, Giovanni Conservo, Giovanni Blandino (un suo legno è anche in copertina), Nicola Sebastio, Giancarlo Chiabà, Angelo Tenan; ed è corredato da un’antologia della critica, che comprende gli interventi di Marco Sinafora, Raffaele Santamaria, Angela Ambrosini, Giuseppe Agostino, Gaetano Iaia, Eugenio Santelli, Leonardo Selvaggi e Giovanni Abete.
In L’urlo dell’innocenza, edito nello stesso anno da Iris ( il libro contiene la riproduzione di quadri di Patrizia Lo Feudo), ascoltiamo “l’urlo lacerato dell’infanzia violata o vietata, …un dolente grido di paternità,”, come osserva nella sua acuta prefazione Franco Bruno Vitolo, che tra l’altro mette l’accento su un’altra particolarità dello stile del Nostro autore: la predilezione per i versi brevi, e il gusto citazionale. Notevole anche l’uso del diminutivo, che ben si adatta al mondo infantile. Nella postfazione Maria Rosaria Di Rienzo invoca la “rivoluzione del cuore perché non siano violati diritti inalienabili dell’uomo quali la vita, la dignità, la libertà”, e sottolinea la “nostalgica rievocazione di luoghi cari: “il vicoletto…un mondo in un mondo”. È lì che Terrone trova e individua le sue radici, quando afferma, nel seguito della composizione: “il mio vicoletto…ancora oggi/mi accompagna/per paesi/vicini e lontani”.
Un po’ come il “vicolo” di quasimodea memoria. Recentissimo il volume Il mio piccolo cuore, uscito per i tipi di Covivio nel 2018, dove gli stilemi ricorrenti stanno a indicare una sostanziale fedeltà del poeta ai temi della sua assidua meditazione. Segnaliamo Insieme a te , dove troviamo “un piccolo eroe che naviga/per mari e monti/ e tende il suo cuore/ad una donna di nome amore” ( l’aggettivo “piccolo” è già nel titolo della raccoltina). Il libro si chiude con una antologia, in cui compare la poesia Colori e sogni, dove l’io lirico si definisce “menzognero”, cogliendo appieno un aspetto della letteratura. Il poeta per essere vero poeta, deve inventare mondi finti che sembrino veri. E si conferma altresì una caratteristica importante della scrittura di Francesco Terrone, riscontrabile ad esempio in Giorni di luce: la poesia si scrive con tutto il corpo; con la vista (“osservo un mare di vita”); col tatto: (“una carezza di vento”); con l’udito: (un cantico). Forse anche in questo è da ricercare il fascino della sua poesia.