Proverbi Africani: la speranza
Padre Oliviero Ferro
Che cos’è la speranza? Come fenomeno religioso, psicologico o ideologico, è identificabile con un certo credo, con uno sforzo tendenziale o con una convinzione; è determinata da uno scopo reale o utopico. Come categoria teologica è fondata sull’attesa della salvezza (nel cristianesimo) e sulla fede nell’avvento assoluto, non determinabile nel tempo, del Regno di Dio. Essa è considerata come virtù teologale data dalla grazia. Per gli africani la speranza è credenza in una vita più felice dopo la morte. La vita nell’aldilà, nella patria degli antenati. Secondo la filosofia della storia, essa dà un senso alla vita umana di fronte alla morte, alla colpevolezza e alla sconfitta. Per gli africani la speranza ha un carattere pratico-teologico. E’ l’attesa di uno stato di felicità, di gioia, lontano o prossimo rispetto a un presente disagiato. La speranza, motore dell’azione pratica, viene allora concepita come conseguenza, o premio, di una vita moralmente buona. In tal caso, la speranza si fonda sulla fedeltà, sulla fiducia nella validità dei principi e nel valore dell’obbedienza per dovere, indipendentemente dai vantaggi e svantaggi che rischiano di contagiare l’azione moralmente virtuosa. In sintesi: colui che spera bene, deve vivere ed operare bene. Il contrario della speranza è la disperazione.
E come sempre, ci diamo il tempo per riascoltare qualche proverbio, cominciando dai Basonge del Congo RDC “A forza di aspettare troppo, si aspetta il vento” (la morale chiede di accontentarsi di ciò che uno possiede e non farsi inutili illusioni). Invece i Ngambay del Tchad ci donano un po’ di saggezza “Soffrire all’estremo non è morire” (finchè c’è vita, c’è speranza). E Quindi, sempre con la stessa idea “La persona che vive di speranza è preferibile a quella che è sazia” dicono i Serrer del Senegal, ricordando che è la speranza che tiene l’uomo in vita. Bisogna saper gioire del bene che si possiede e non fare affidamento su quello che si potrà, forse, ottenere. Così dicono gli Akan del Ghana “Sei più sicuro di ciò che hai ingoiato. Ciò che sta ancora in bocca ti può essere ritirato”.
E altri due proverbi ribadiscono la stessa cosa. I Sukuma della Ranzania dicono “Di ciò che sta tra le mani gioisca il cuore” E i Merine del Madagascar ribadiscono “Devi contare i pesci che hai in mano; non contano quelli che tua moglie ti ha promesso per domani”. Saggezza molto concreta. Saper accettare quello che si ha, non pensare a ciò che non si può raggiungere e nemmeno fare conto sull’aiuto di altri. Ognuno deve sapere costruirsi la sua vita. E’ quello che ci ricordano questi due proverbi. “Della grossa brocca che non t’invita, non avrai mai sete” dicono gli Abè della Costa d’Avorio. E aggiungono i Tutsi del Rwanda “nessuno implora il Dio di un altro. Se lo implori, ti manda la galla (bolla, rigonfiamento)”. A questo proverbio, potremmo mettere vicino quello di Trapattoni, un grande allenatore italiano che diceva “non dire gatto, se non l’hai nel sacco”.
Sono i Toucouleur della Mauritania che dicono “Non puoi dire di rompere le ali di un uccello, prima di averlo acchiappato” (non si canta vittoria prima del tempo). E concludiamo con questi due che sono un ulteriore invito alla speranza e a non abbattersi. “Sperando che arrivi la carne, mangia pure la verdura” dicono i Balari del Congo Brazzaville. E i Toucouleur del Senegal concludono dicendo “Una sola melanconia non strappa mai il ventre” (non tutto è perduto).