La Scuola non è un esamificio!

Aurelio Di Matteo*

Ho sempre pensato, come ebbi a ricordare in un articolo, che la Scuola secondaria si portasse dietro un maleficio che fin dal tempo del Ministro Gonnella ne impedisce una seria e strutturale Riforma.

È un maleficio che colpisce anche il pensare e l’agire dei Ministri che si avvicendano, indipendentemente dalla loro appartenenza politica. E ciò lo si desume dal fatto inspiegabile che chiunque venga ad assumere quell’incarico il primo atto che compie attiene all’Esame di Stato, investito subito da una modifica, piccola o grossa che sia, indipendentemente dai contenuti, dalla struttura e dalle metodologie del percorso formativo compiuto dallo studente che quell’esame deve sostenere.

Il nuovo Ministro, per non essere da meno, si è mosso in continuità competitiva con i suoi predecessori. La prima cosa che ha fatto ha messo mano all’Esame di Stato!

Non entro nel merito delle modifiche, anche perché ognuno ha una visione propria delle modalità dell’esame, legittima alla pari come tutte le discussioni che lasciano da canto il problema strutturale del percorso e della funzione della scuola e, quindi, dell’esserci o meno di un esame finale, pomposamente chiamato di Stato.

È pur vero che bisogna dare atto a questo “silenzioso” ministro di avere apportato alcuni tagli a presenze inutili, quali la terza prova, l’invalsi, la tesina, ecc. Tutto qui.

La farraginosità cartacea della prima prova, seppur a leggere gli esempi proposti dal MIUR apparentemente semplificata, lascia sostanzialmente identiche struttura e modalità della stessa. Analogamente la seconda prova resta immutata, seppur arricchita di uno scampolo di un’altra disciplina per dare un messaggio politico di ripristinata “severità”, magari con l’aumento percentuale di qualche punto del numero di non promossi, quasi a rappresentare il PIL scolastico. Come se la severità connotasse la funzionalità e l’adeguatezza del percorso scolastico. E a seguire anche nella prova orale al posto della tesina si immette il sorteggio delle tematiche e dei documenti sui quali si svolgerà il colloquio, come avveniva negli anni 1960 per l’esame del Concorso a cattedre dei docenti.

Bene si direbbe; ma tutto questo a fronte di quale modifica dei percorsi formativi?  e con quali finalità? E nessuno che si sia posto la domanda di fondo: a cosa serve l’esame di Stato conclusivo?

Serve a selezionare? e cosa seleziona? Considerato che si esprime con un numero, a certificare conoscenze, competenze e capacità? quali e quante? e come si concilia questa richiesta di quantità con le differenze tra le varietà dei PTOF e la loro realizzazione di fatto?  E poi, in base a quali metodologie tecniche questa certificazione? e per che cosa? per abilitare alla professione, al lavoro o per l’accesso all’Università?

La stessa mutevole denominazione che negli anni si è data – licenza liceale, maturità, esame conclusivo, esame di Stato, ecc. denota la mancanza di identità e di significato. La connotazione, in verità, viene acquisita solo in seguito, da una determinazione giuridica esterna che nulla ha a vedere con la sua funzione di momento conclusivo di un ciclo formativo. Acquisisce il suo significato, la sua funzione e la sua identità in forza di un valore giuridicamente cogente datogli da un numero denominato voto. Diventa così un titolo di studio. O, come si diceva nel parlare quotidiano con termine semanticamente identificativo, la scartoffia.

E le eventuali risposte date a quelle domande, seppur positive e diversificate, spariscono d’incanto di fronte a un numero-punteggio che ti eguaglia e ti accomuna a tutti gli altri numeri uguali. È la forza e la natura del valore legale del titolo di studio.

E così ogni anno a metà giugno va in scena questa rappresentazione teatrale nella quale ognuno recita la sua parte: il genitore all’affannosa ricerca della raccomandazione; il Ministro, soprattutto se nuovo, che trasmette il suo messaggio augurale ai ragazzi ed i buoni propositi di modificare e riformare tutto; il sito web che comunica le tracce delle prove scritte quasi sempre qualche minuto prima che siano state dettate ai candidati; l’onorevole peone che presenta l’interrogazione urgente al ministro a beneficio del parente o dell’amico elettore; l’immancabile intellettuale che ricorda con compiaciuta nostalgia il “suo” lontanissimo esame; le pagine dei giornali riempite di scontate e banali interviste, con le altrettanto ovvie risposte di candidati e docenti; il cosiddetto esperto che, facendo sfoggio di normali e standardizzate competenze contrabbandate per conoscenze esclusive, illustra lo svolgimento delle tracce assegnate; l’onnipresente chiarissimo professore universitario che non perde l’occasione per dilungarsi in una serrata critica alle tracce proposte; per finire al solito pedagogista o opinionista che si dilunga in proposte di miglioramento presentate come l’unica panacea ad una formula da lui ritenuta ovviamente sbagliata. La cosa grottesca è che tutti siamo consapevoli di questa ritualità da rappresentazione teatrale e tutti continuiamo a tenere in vita un moccolo spento che, oltre ad essere inutile e dannoso sul piano delle certificazioni di competenza e della valutazione, comporta un enorme spreco di risorse economiche che ben potrebbero essere impiegate per potenziare e migliorare la funzione e la preparazione del docente.

Nei miei tanti anni di permanenza nella scuola – 44 tra docenza e presidenza e poco più di 16 da studente – non ho mai ascoltato qualcuno, politico o intellettuale, ad eccezione dell’allora Presidente della Repubblica Einaudi, che l’Esame di Stato, in quanto valore giuridico, fosse inutile al pari, aggiungo io, della marca da bollo.

La prima cosa a farsi per una seria Riforma, sarebbe proprio l’eliminazione del valore legale del titolo di studio, vero e proprio residuato bellico, buono a discriminare secondo criteri impropri e inutile a testimoniare di quali competenze sia portatore un giovane. I Paesi più avanzati, che sono ai vertici della classifica OCSE, non danno alcun valore al titolo di studio, allo stesso modo di come ignorano le marche da bollo.

Il valore legale del titolo di studio mortifica il valore individuale, perché rende uguali giovani che hanno conseguito uno stesso voto ed uno stesso titolo in contesti e in percorsi didattici diversi. In tal modo svaniscono le competenze ed i meriti di ciascuno a favore di una valutazione burocratica e formale che livella ed annulla la sostanza delle personalità culturali e le reali capacità, le conoscenze e competenze acquisite.

Come conseguenza, la seconda cosa da eliminare è lo stesso Esame di Stato.

La separazione avvenuta, di fatto, tra cultura scolastica e cultura sociale, tra quella finalizzata all’esame e quella per il mondo del lavoro, impone la sua sostituzione con credenziali verificate e verificabili, certificate e certificabili con riferimento a competenze e capacità. E ciò avviene in tutti i Paesi ad economie e tecnologie avanzate. Una Laurea conseguita ad Harvard non porta votazione, ma è stata conseguita certamente da un eccellente studente!

Gli è che la scuola non deve essere un esamificio, se vuole diventare finalmente luogo di acquisizione di sapere e di competenze. L’istituto stesso dell’esame è strumento improprio di selezione ed ostacolo alla serietà dell’apprendimento. L’esame è inutile ai fini dell’orientamento, ingiusto e non veritiero ai fini della valutazione, lasciata com’è alla discrezionalità ed ai criteri fortemente differenziati delle singole Commissioni, e non comporta una pur minima certificazione di competenze. Basato su prove uniformi, è tipico strumento di astratta selezione, di controllo del potere, di invadenza dello Stato e coerente corollario di una didattica standardizzata e regolatrice di contenuti ed obiettivi. Non è un caso che questo tipo di scuola sia stato privilegiato dai regimi totalitari, cominciando da quello fascista e da quello sovietico per giungere alle attuali teocrazie islamiche. Sarebbe ora che qualcuno prendesse il coraggio di un’iniziativa legislativa per eliminare il valore legale del titolo di studio e con esso ogni tipo di esame.

Il valore legale del titolo di studio appartiene ad una visione del mondo corporativa e statica che nega l’intraprendenza ed il gusto della ricerca.

Liberare la società da questo medioevale strumento di selezione, significherebbe consentire all’alunno il piacere dell’apprendere e l’acquisizione di competenze e di conoscenze adeguate alla propria personalità, eliminando la subdola ricerca di un voto burocratizzato nel percorso di apprendimento e nell’atto di attribuzione; nello stesso tempo obbligherebbe ogni istituzione scolastica ad un’offerta formativa e di funzioni sempre più adeguate e migliori.

* Già Dirigente Scolastico