Nocera Superiore: IC “Fresa Pascoli”, al via Sportello d’accoglienza e solidarietà
La scuola Fresa Pascoli nell’ambito del PTOF e del progetto di accoglienza istituisce uno sportello di
accoglienza, di inclusione sociale e di solidarietà per sostenere, attraverso l’aiuto di tutti, gli alunni più
svantaggiati, per combattere il disagio economico e sociale sempre più condizionante la crescita formativa
degli alunni. Lo sportello si interesserà di: • Interventi in emergenza sugli alunni e su tutta la comunità
scolastica. • Acquisizione di proposte inclusive. • Relazioni con le famiglie e con gli alunni in sintonia con lo
sportello d’ascolto e con il progetto scuola inclusiva. • Sostegno economico al disagio • Interventi di
beneficienza e di sostegno e cura dell’altro. • Raccolta fondi per gli interventi su base volontaria e
rendicontati dal Collegio docenti e dal gruppo di lavoro : STAFF PROGETTO “ ACCOGLIENZA” – GLI ASSUNTI
TEORICI ED IL NOSTRO PTOF La scuola diventa oasi se si guardano le cose da un punto di vista solidale, se
apre le sue porte per creare uno spazio ospitale dove offrire ristoro e accoglienza a chi fuori vive una
condizione di sofferenza. Si può affermare che la solidarietà e l’aiuto vanno visti come una potenziale
risorsa e come un opportunità di crescita formativa. In questo senso la solidarietà, l’aiuto e la vicinanza ed il
sostegno si amplificano come valori positivi. In questo senso la scuola dovrà lavorare per un progetto
globale che consenta processi di effettiva vicinanza a chi soffre e ha bisogno di sostegno. La scuola dovrà
sempre più configurarsi come una comunità educante ed educativa, una scuola aperta, compartecipata,
condivisa, giusta, nella quale il bisogno di solidarietà e di vicinanza umana diventino risorse in più per la
persona stessa e per gli altri. La solidarietà si pone oggi come un progetto di sfida rispetto alla società
complessa, in cui ciascuno di noi è chiamato a svolgere il proprio ruolo propositivo. Nell’attuale contesto
socio-economico, la scuola si costituisce come “presidio educativo e sociale” nel senso della disponibilità a
contenere le domande di carattere pedagogico e /o assistenzialistico che le famiglie possono elaborare. Lo
scopo che si prefigge di raggiungere è quello di stabilire un rapporto di interazione dialettica tra le agenzie
educative, di scoprire quali strumenti possono favorire il processo di collaborazione, realizzando un
progetto che parte da una premessa nuova. Successo formativo e personalizzazione degli interventi Fra le
scelte d’identità’ della nostra scuola è da sottolineare quella di assicurare il successo formativo, ossia fare in
modo che ogni alunno realizzi il pieno sviluppo della sua personalità. La nostra scuola, pertanto, si impegna
in modo prioritario non solo ad assicurare le conoscenze, ma soprattutto a promuovere la formazione delle
capacità e degli atteggiamenti che caratterizzano la persona umana nella sua singolarità ed unicità. Solo
una formazione rispettosa delle diversità può infatti considerarsi una piena formazione della personalità
umana. Quando parliamo di diversità intendiamo riferirci sia a quelle culturali, sociali, linguistiche, religiose,
musicali, artistiche ma in particolar modo alle diversità personali ossia alle diverse identità; ed è sul rispetto
delle diverse identità che viene centrata l’azione educativa della nostra scuola. Per assicurare il successo
formativo di ogni alunno, la nostra scuola provvede ad attuare una personalizzazione dell’azione educativa
e didattica nel pieno rispetto delle nascenti identità dei singoli. Accanto agli obiettivi di apprendimento
comuni a tutti gli alunni, perché mirati alla formazione dell’uomo e del cittadino, si uniscono gli Obiettivi
formativi personalizzati che sono rispondenti alle esigenze formative dei singoli allievi. I percorsi formativi
personalizzati vengono strutturati tenendo presente le modalità di apprendimento dei singoli alunni, dei
loro livelli di apprendimento, dei loro ritmi e stili di apprendimento. Una scuola che mira al successo
formativo di ciascun alunno, è anche una scuola che mira alla “ gioia dell’apprendere”. A tal fine il rapporto
tra gli insegnanti e gli alunni è basato sulla relazione educativa che, pur nella diversità dei ruoli e delle
funzioni, implica l’accettazione e il prendersi cura l’uno dell’altro come persone. Le relazioni educative
interpersonali che si sviluppano nei gruppi, nella classe e nella scuola, creano un clima particolarmente
favorevole all’apprendimento. Prevenzione dei disagi e il recupero degli svantaggi Per gli alunni che hanno
un retroterra sociale e culturale svantaggiato, la scuola programma i propri interventi mirando a rimuovere
gli effetti negativi dei condizionamenti sociali, in maniera tale da superare le situazioni di svantaggio
culturale e da favorire il massimo sviluppo di ciascuno e di tutti. In tal modo, la scuola cerca di rimuovere
quegli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando la libertà e l’uguaglianza, “ impediscono il pieno
sviluppo della persona umana “ ( art. 3 della Costituzione). I nostri docenti si adoperano per creare un clima
relazionale basato sulla disponibilità all’ascolto e al dialogo al fine di poter leggere i bisogni e i disagi dei
loro allievi e di intervenire prima che si trasformino in malesseri, disadattamenti e abbandoni. Il Piano
dell’Offerta Formativa (POF) è inclusivo quando prevede nella quotidianità delle azioni da compiere, degli
interventi da adottare e dei progetti da realizzare la possibilità di dare risposte precise ad esigenze
educative individuali; in tal senso, la presenza di alunni disabili non è un incidente di percorso,
un‘emergenza da presidiare, ma un evento che richiede una riorganizzazione del sistema già individuata in
via previsionale e che rappresenta un’occasione di crescita per tutti. L’integrazione/inclusione scolastica è,
dunque, un valore fondativo, un assunto culturale che richiede una vigorosa leadership gestionale e
relazionale da parte del Dirigente Scolastico, figurachiave per la costruzione di tale sistema. Al fine
dell’inclusione scolastica degli alunni con disabilità è indispensabile ricordare che l’obiettivo fondamentale
della Legge 104/92, art. 12, c. 3, è lo sviluppo degli apprendimenti mediante la comunicazione, la
socializzazione e la relazione interpersonale. A questo riguardo, infatti, la Legge in questione recita:
“L’integrazione scolastica ha come obiettivo lo sviluppo delle potenzialità della persona handicappata
nell’apprendimento, nella comunicazione, nelle relazioni e nella socializzazione”; il c. 4 stabilisce inoltre che
“l’esercizio del diritto all’educazione e all’istruzione non può essere impedito da difficoltà di apprendimento
né da altre difficoltà derivanti dalle disabilità connesse all’handicap”. La progettazione educativa per gli
alunni con disabilità deve, dunque, essere costruita tenendo ben presente questa priorità. Qualora, per
specifiche condizioni di salute dell’alunno (di cui deve essere edotto il Dirigente Scolastico) o per particolari
situazioni di contesto, non fosse realmente possibile la frequenza scolastica per tutto l’orario, è necessario
che sia programmato un intervento educativo e didattico rispettoso delle peculiari esigenze dell’alunno e,
contemporaneamente, finalizzato al miglioramento delle abilità sociali, al loro potenziamento e allo
sviluppo degli apprendimenti anche nei periodi in cui non è prevista la presenza in classe. Sulla base di tale
assunto, è contraria alle disposizioni della Legge 104/92, la costituzione di laboratori che accolgano più
alunni con disabilità per quote orarie anche minime e per prolungati e reiterati periodi dell’anno scolastico.
E’ vero, comunque, che talvolta si tende a considerare esaurito il ruolo formativo della scuola nella
socializzazione. Una considerazione corretta di questo concetto, tuttavia, porta ad interpretare la
socializzazione come uno strumento di crescita da integrare attraverso il miglioramento degli
apprendimenti con buone pratiche didattiche individualizzate e di gruppo. Riemerge qui la centralità della
progettazione educativa individualizzata che sulla base del caso concreto e delle sue esigenze dovrà
individuare interventi equilibrati fra apprendimento e socializzazione, preferendo in linea di principio che
l’apprendimento avvenga nell’ambito della classe e nel contesto del programma in essa attuato. Una
progettazione educativa che scaturisca dal principio del diritto allo studio e allo sviluppo, nella logica anche
della costruzione di un progetto di vita che consente all’alunno di “avere un futuro”, non può che definirsi
all’interno dei Gruppi di lavoro deputati a tale fine per legge. L’istituzione di tali Gruppi in ogni istituzione
scolastica è obbligatoria, non dipendendo dalla discrezionalità dell’autonomia funzionale. Per tale motivo il
Dirigente Scolastico ha l’onere di intraprendere ogni iniziativa necessaria affinché i Gruppi in questione
vengano istituiti, individuando anche orari compatibili per la presenza di tutte le componenti chiamate a
parteciparvi. Si è integrati/inclusi in un contesto, infatti, quando si effettuano esperienze e si attivano
apprendimenti insieme agli altri, quando si condividono obiettivi e strategie di lavoro e non quando si vive,
si lavora, si siede gli uni accanto agli altri. E tale integrazione, nella misura in cui sia sostanziale e non
formale, non può essere lasciata al caso, o all’iniziativa degli insegnanti per le attività di sostegno, che
operano come organi separati dal contesto complessivo della classe e della comunità educante. È
necessario invece procedere secondo disposizioni che coinvolgano tutto il personale docente, curricolare e
per le attività di sostegno, così come indicato nella nota ministeriale prot.n. 4798 del 25 luglio 2005, di cui si
ribadisce la necessità di concreta e piena attuazione. La disponibilità verso l’altro Veniamo da un retroterra
culturale dove, spesso, le idee prevalenti sono state quelle dell’opportunismo, del potere, del calcolo, del
proprio vantaggio; paradossalmente si rifiuta il potere e se n’è abbagliati, quasi a chiederlo in cambio di
sicurezza e di delega. “La società odierna, sostiene Volpi, non può tollerare che la persona umana si rivolga
all’altro nella totalità delle proprie attribuzioni, non può consentire che l’altro divenga un valore
assoluto”17. Per uscire dallo smarrimento di senso18 che sembra accompagnare il nostro tempo occorre,
invece, disporsi produttivamente verso l’amore in un atteggiamento completo ed incondizionato verso
l’altro, restituendogli le capacità di scelta e di decisione (contro un potere coercitivo) e la responsabilità del
proprio progetto di vita (speranza esistenziale). Ciò significa valorizzare le qualità dei rapporti senza
desiderare il possesso dell’altro o comunque che l’altro sia dipendente da noi, in varia misura. Significa
sentirsi coinvolti, riconoscere la straordinarietà del quotidiano, valorizzare le azioni poiché tutte irripetibili
ed insostituibili nell’attore, vuol dire, infine, riconoscere la portata educativa dell’amore non come
sentimentalismo ma come frutto di sentimento, emozione, intelligenza e pensiero. Scegliere di “vedere il
positivo”, senza negare il negativo, ci consente di attivare la disponibilità agli altri, la costante ricerca di ciò
che è bene fare, del giusto momento in cui farlo, affrontando i problemi e non avendone paura e
rimuovendoli. Il modo in cui scegliamo di vedere il mondo e gli altri crea il mondo che vediamo. Ciò
consente di dire a B.N.Kaufman, padre di un ragazzo autistico giudicato gravemente compromesso: “Al
nostro primo figlio maschio era stata diagnosticata una forma presumibilmente incurabile di disordine
neurologico e cerebrale di tipo autistico. Il bambino passava le ore girando in cerchio, dondolando avanti e
indietro, agitando le dita davanti agli occhi ed emettendo una serie infinita di suoni strani e misteriosi. Gli
oggetti …trattenevano ipnoticamente la sua attenzione, trasportandolo in un mondo privo di contatti
umani … non ci guardava mai. …. Quando gli specialisti ci elencavano le sue profonde deficienze, noi
facevamo attenzione ad ogni barlume delle sue capacità. Abbiamo deciso di essere fieri di nostro figlio,
abbiamo cercato di entrare nel suo mondo… i suoi comportamenti li abbiamo usati come veicolo per
comunicargli che lo accettavamo e per aiutarlo a scoprire il mondo. Quando agitava le dita, le agitavamo
anche noi. … Ci addentravamo lentamente nel buio … creando un ponte di parole e di affetto”19. Siamo
esseri che costruiscono convinzioni e che le consumano. Esse dipendono dai nostri punti di vista. Acquisire
il punto di vista positivo significa migliorare se stessi e dare fiducia a chi ci sta vicino. Come ci insegnava il
popolarismo pedagogico di Marco Agosti il ruolo della scuola è quello di offrire la prima e fondamentale
occasione di aiuto, elevazione e riscatto, per superare differenze sociali e non solo, per un risorgimento
inteso soprattutto in senso culturale e morale. Serve per la scuola dell’autonomia e per il suo definitivo
decollo (inteso come allargamento del tempo scuola, dei servizi integrati all’offerta formativa, dell’avvio dei
laboratori e del cooperative learning, dell’entusiamo e delle competenze professionali, della sicurezza, del
decollo di un sistema di formazione integrato al territorio). LE RIFLESSIONI NARRATIVE RIFLESSIONI……
….L’allegro ed entusiastico inizio del nuovo anno scolastico di quarta si era dileguato in un baleno. A un
certo punto si era formata una pesante atmosfera che ci aveva trasformati tutti. La loro reazione alla mia
partenza, il mio atteggiamento non troppo disinvolto, che lasciava trasparire il pentimento per non aver
saputo resistere alla situazione, abbandonando la lotta, ci aveva riportato, come nei primi giorni dell’anno
precedente, su campi diversi. A rendere ancor più critica quella situazione di distacco si aggiunse l’arrivo del
collega che doveva sostituirmi. La prima impressione, in certe circostanze della vita, ha valore
determinante, anche se poi qualche volta si rettifica e magari si capovolge. In quel momento, però, la
presenza di un uomo dall’aria smarrita, che proveniva, non ricordo per quale motivo, da uno dei soliti
stanzoni del ministero, dove la carta domina sovrana, non poteva certo venirci incontro ad aiutarci. Era
spaesato come un montanaro nel centro di una metropoli. Si vedeva dal suo fare stanco, dal suo sguardo
opaco, che aveva dimenticato i bambini; si capiva che, al solo vederli, gli davano fastidio. Forse da anni ed
anni non si avvicinava più ad una classe, forse non aveva mai insegnato, ed ora si trovava a disagio in mezzo
alla vita di una classe che la sclerotica mente di un burocrate non può certo comprendere. Mentre parlava
con me certamente pensava alle sue scartoffie, o meglio al suo placido posticino che gli consentiva, magari,
di guadagnare qualche lira in più, scrivendo sui soliti moduli sempre le stesse cose, fino alla nausea. Ormai
si doveva essere talmente abituato a questo modo di vivere da provare noia e disgusto per ogni novità. Si
era appoggiato alla cattedra con fare stanco, dando le spalle ai bambini, e parlava a bassa voce per non
farsi sentire da loro. Eppure non c’era niente da nascondere; tutto di lui era chiaro. I suoi occhi inespressivi
s’incupivano appena li volgeva alla platea dei miei alunni. Anche il più disattento osservatore avrebbe
potuto constatare il suo disappunto e la sua sofferenza nel trovarsi a Pietralata, e per giunta in mezzo a
bambini di quel tipo. Il suo pensiero era altrove: lontano dall’aula. Parlava come un uomo di ottant’anni;
eppure, ad occhio e croce, non aveva superato di molto la quarantina. Per lui la vita apparteneva al suo
passato; a quel che pensava di riavere. La prima cosa che mi disse, appena si presentò, fu che voleva andar
via. Che non poteva starci per molte ragioni, ma soprattutto perché sentiva una innata avversione al vivere
in mezzo alla gente di borgata. “Qui la scuola è impossibile, io non ce la faccio”, ripeteva spostandosi
nervosamente dalla cattedra alla finestra e facendo smorfie con la bocca. “Tu come fai? come hai fatto a
passarci un anno?” Io guardavo gli alunni e pensavo alla loro sventura. Mi veniva una gran voglia di
mettergli la mano sulle spalle e farlo correre, volare, se fosse stato possibile. Sempre ho sentito una grande
antipatia per questi nemici della scuola, ma questa volta ne avevo davanti uno che m’insultava col suo
atteggiamento, con le sue parole, le sue smorfie. Mi dominai per paura che i ragazzi scatenassero un
putiferio: sarebbe bastata una sola parola ed essi, che seguivano muti e attenti i nostri discorsi, l’avrebbero
investito facendogli sentire fisicamente quel che pensavano di lui. Malgrado la mia prudenza, però,
capirono tutto. Non solo si resero conto che io dovevo andar via, ma subito intuirono anche lo stato
d’animo di questo individuo a cui nulla dicevano gli occhi dei bambini, il loro vivere, gli interessi, gli slanci, le
loro passioni. Non appena decise di rivolger loro qualche parola, cominciarono a guardarlo e, con distacco,
a parlargli con arroganza. Cercai di salvare la situazione; ma fu peggio. Dopo qualche attimo cominciarono a
rumoreggiare e gridare. “Non lo vogliamo!”, urlò Beppe. “Non lo vogliamo!”, fecero in coro disordinato gli
altri, capeggiati da Roberto. Mi guardava, interrogandomi con lo sguardo confuso e incredulo, come per
dire: “Ma dove diavolo sono capitato!”. Sentivo tutto il peso e la responsabilità di quel che stava
accadendo. Lì per lì non seppi altro che invitarli a tacere. A parte il fatto che la società in cui vivevano aveva
coltivato in loro il sentimento della ribellione, è anche vero, però, che io non avevo certamente soffocato
questo sentimento con le imposizioni, come spesso avviene, per non ridurre dei bambini orgogliosi e
gagliardi a poveri esseri senza volontà, alla merce di chi, gridando, vuol far valere le sue ragioni, per il
semplice fatto di essere il più grande. Comprendevo, tuttavia, l’inciviltà di questa manifestazione, anche se
in fondo era, a modo loro, la più semplice e spontanea dichiarazione di affetto ed attaccamento a me. Si
trattava di una forma primitiva di lotta, istintiva se vogliamo, ma sempre valida quando ci si trovi
improvvisamente di fronte a determinate circostanze. Del resto, cosa avrebbero dovuto fare se non
prendersela con colui che si presentava con aria di menefreghismo e ostilità? Certo, avrebbero potuto
anche chiedere la parola, così come si faceva durante le discussioni, e magari dire con franchezza tutto
quello che avevano da dire. Questo sarebbe stato l’ideale, proprio di quella classe modello che io sognavo;
ma non si potevano raggiungere questi livelli nel breve tempo di un anno scolastico. Esprimevano, dunque,
i loro sentimenti nella maniera più schietta e spontanea. Io ero nervoso per la figura che facevo, ma, in un
certo senso, mi sentivo lusingato per la reazione che opponevano al prototipo dei burocrati. Da questo
punto di vista provavo un gran piacere, perché la loro reazione era, in fondo, la mia; io purtroppo non
potevo però esprimerla. Era la lotta contro la mentalità del razzismo nostrano. Esagerazione? Non mi pare;
soprattutto se ricordo gli atteggiamenti dei miei colleghi, che a parole si dichiaravano immuni da questo
morbo sociale. Mi lusingava anche il fatto che questi ragazzi avevano riposto in me la loro fiducia; che
avevo guadagnato la loro stima, ed ero diventato il loro confidente, cosa non molto facile in ambienti come
questi. Avevano evidentemente trovato in me quella figura ideale che tutti i bambini cercano nei grandi ed
imitano in ogni manifestazione del loro vivere. Ora fiutavano il pericolo del mio allontanamento e
strepitavano per paura di non saper più a chi guardare, chi seguire; il nuovo arrivato, infatti, da quel che
erano riusciti a capire, non solo ispirava alcuna fiducia, ma, addirittura, li indispettiva. Ed ora, a distanza di
tempo, comprendo ancor meglio quanto avessero ragione. Quel maestro ministeriale, presente solo col suo
fisico, dopo qualche tempo era ritornato al suo agognato cantuccio, e l’anno seguente la classe era a
dispersa nelle classi parallele. Anche dopo due anni il ricordo doloroso delle botte che Beppe, Luciano,
Roberto e compagni avevano preso da quel tipo di maestro era ancora presente. La triste esperienza dei
primi anni di scuola, quando avevano dovuto cambiare anche dieci maestri in otto mesi, aveva dato loro
l’idea del loro futuro scolastico, ed ora, a ragione, diffidavano e si difendevano. Il nostro collettivo che tanta
fatica ci era costata aveva purtroppo finito di vivere. Ognuno aveva dovuto adattarsi ad altri sistemi, ad altri
metodi d’insegnamento, dimenticando o rimpiangendo i nostri principi basati sul concetto della classe
intesa come centro di vita collettiva, in cui ogni bambino ha la possibilità di svilupparsi ed affermarsi
attingendo alla collettività. Sono le parole del nanetto a confermarmelo. Un giorno incontrandolo in
corridoio mi disse: “Sor maé, con lei si stava bene. Si poteva parlare. Ognuno poteva dire quello che voleva.
Si giocava e si stava sempre allegri. Io me ne ricordo sempre. Mannaggia oh! Con questo maestro calabrese,
invece, non si può parlare. Parla sempre lui. Quando voglio dire qualcosa mi dice: ” Stai zitto! ” E poi
avevamo il capoclasse, i capigruppo. Ora invece comanda tutto lui. Si ricorda quando andavamo in cortile?
Mannaggia oh!” E non solo il nanetto: anche Luciano, Sandro, Roberto, Beppe alla fine rimpiangevano il
nostro metodo; proprio loro che non sapevano adattarsi a nessun tipo di organizzazione, che mal
tolleravano la disciplina del collettivo, guidati come erano da un esasperato individualismo! E Claudio,
Francesco, Antonio, Alvaro e gli altri, com’erano lieti quell’ultimo giorno al caffè! La scuola non era stata
sofferenza; non era costata troppi sacrifici o eccessive rinunzie. I loro testi, le loro poesie, le inchieste
testimoniavano l’inequivocabile volontà di migliorare, di progredire, di superare quella condizione a cui
erano costretti da una società ingiusta che nulla aveva dato loro se non amarezze, umiliazioni, sconforto. La
scuola, sì, può fare molto. Ma non la scuola di Pietralata. Non la scuola del direttore miope e avaro di
contatti umani, che cerca di risolvere i più delicati problemi dei rapporti con le famiglie come un incallito
poliziotto. Non la scuola del secondo direttore che ha terrore della “politica” come e della peste. Non la
scuola di maestri che pensano solo a fuggire, senza curarsi di conoscere, di indagare prima di agire nei
confronti degli allievi; che si servono della sospensione come il domatore della frusta. Ebbene, quella non
poteva essere la scuola di quei bambini. Non poteva essere la scuola di Beppe, bizzarro e sfrenato come un
puledro di prateria, abituato a spaziare a piacere; non quella di Luciano, buono, ma malato di nervi; di
Roberto, esuberante e cocciuto; di Sandro, capriccioso e terribilmente elettrizzato; del nanetto, riflessivo
ma incapace di acquisire rapidamente nozioni astratte. Di una nuova scuola avevano bisogno. Questo è
quello che ho cercato di dare nei due anni che ho trascorso fra loro: una scuola in cui si sentissero
innanzitutto loro stessi, con la loro libertà, il desiderio sfrenato di fare, di realizzare; una scuola in cui
fossero loro a cercare e trovare, a dar sfogo alla curiosità di conoscere e sapere, senza sentirsi strumenti
della volontà altrui. Dal clima che lentamente si è andato stabilendo è sorta in ognuno la fiducia e la
responsabilità. Beppe diventa zelante nemico del gioco d’azzardo: lui che prima avrebbe giocato anche
l’anima, se ne avesse avuta la possibilità. Roberto, Sandro, Luciano, Guido, intolleranti di ogni disciplina, si
rimettono alla volontà della maggioranza, quando si decide qualcosa che interessa la collettività. Claudio, il
tuffatore dell’Aniene, abulico e menefreghista, prende gusto a fare inchieste, a intervistare, a girare per la
borgata, portando a scuola prezioso materiale. Francesco ed Antonio improvvisamente si sentono poeti e
affidano a semplici versi i loro sentimenti. In quale misura questo fervore di vita, di attività, di lotte e
contrasti, che continuamente si rinnovano nel progredire, abbia potuto contribuire e contribuirà alla
formazione del loro domani, non è facile dirlo. Del resto mai mi sono posto una prospettiva così lontana,
data la brevità del tempo a disposizione e il limite di un solo anno. L’esempio di Nunzio e Luciano della
classe di “semirecupero” prima, e di Carletto dopo, mi incoraggiarono a credere che molto si poteva fare,
anche nei casi più disperati. Guardando oggi, con il distacco che la distanza del tempo impone, mi pare di
poter dire serenamente, alla luce dei fatti, che la strada seguita sostanzialmente corrispondeva alla realtà
del momento. Al fondo delle mie convinzioni stava, e sta oggi, la volontà di guardare alla realtà, così come
si presenta, in tutta la sua crudezza. Sognare una scuola modello, dove tutto è predisposto e fissato in
anticipo, è stato il grossolano errore di quei colleghi che confrontavano la scuola di Pietralata con quelle del
centro, senza però accorgersi che dietro la facciata dell’atteggiamento composto del bambino della famiglia
“bene” del centro, insorgevano altri problemi, e non meno scabrosi. È da questo accostamento semplice e
acritico, che vedeva gli aspetti più appariscenti da una parte e negativi dall’altra che scaturisce la ingenua
conclusione del “qui tutto male e là tutto bene”. Certo, per chi limita la sua funzione educativa al semplice e
puro insegnamento di nozioni, il confronto non regge. Ma chi di la questo non si accontenta e vuole dare
anche un contenuto ideale al suo lavoro, per agganciarsi ai più elevati principi del vivere umano, cercherà di
soppesare le due componenti rallentatrici dello sviluppo del processo educativo. Fra il sordo conformismo e
l’esasperato individualismo che si confonde e nasconde nell’apparente ordine del bambino “bene”, e lo
slancio generoso e spregiudicato dei piccoli di borgata, io preferisco il secondo, come punto di partenza.
Sarà forse perché io amo la gente che non si rassegna al primo infuriar dei venti, che non si piega alla prima
minaccia, e non si sconforta alla prima sconfitta; forse perché chi lotta e si batte fino in fondo per sostenere
le sue convinzioni, lo stimo e l’ammiro; fatto sta che a questi ragazzi così fieri e gagliardi, sempre pronti a
battersi, mi dedicai con tutta la passione e l’entusiasmo possibile. Queste due mie classi erano di quelle a
cui, o si dà tutto e si ottengono dei risultati sorprendenti sul piano umano più che su quello didattico, o si
finisce per odiarle. Il tempo e l’ambiente potranno cancellare dal cuore di quei ragazzi ogni ricordo di quel
periodo breve e difficile, ma intenso di passioni e di felicità? (Da Albino Bernardini, Il maestro di Pietralata,
Firenze, La Nuova Italia, 1975, pp.140-46.)
Dirigente scoloastico
Michele Cirino