Nostalgia: mal d’Africa
Padre Oliviero Ferro
Quello che è successo in Congo (l’uccisione dell’ambasciatore italiano, del carabinieri e dell’autista che lo accompagnavano) ha fatto ritornare prepotentemente alla memoria i 13 anni e mezzo vissuti in Congo e in Camerun. Certo il Mal d’Africa si cura solo ritornando in Africa. Chissà, se prima di morire, sarà possibile. Davanti ai miei occhi ritornano i volti, i canti, gli incontri con tante persone: dai bambini agli anziani. Persone che mi hanno regalato qualcosa della loro vita, della loro gioia e della loro sofferenza. Finalmente, si ricomincia a parlare dell’Africa (ma fino a quando?).
Quante volte i missionari: religiosi, laici e volontari lo hanno fatto e spesso non sono stati ascoltati, perché quello che succede laggiù non interessa o forse non vogliamo sentirli vicini, eppure papa Francesco ci dice che dobbiamo “prenderci cura” di ogni persona (vicina e lontana) e che è nostro fratello e sorella. L’Africa è stata sempre parte dei miei sogni. Quando sono partito per andare laggiù, non mi ero accorto che dovevo lasciare qualche bagaglio in Europa (i pregiudizi, i commenti, il senso di superiorità…). Ma, per fortuna, appena arrivato, me lo hanno fatto capire subito.
Mi hanno detto, alla loro maniera, che quella ormai era casa mia e se volevo restare, dovevo mescolare la mia vita con la loro. E così ho incominciato a fare. La prima sfida è stata quella di imparare la lingua (in Congo il kiswahili, oltre al francese, ristudiato a Parigi; lo stesso valeva per il Camerun. Anche lì tante lingue). E i migliori maestri, i più severi, erano i bambini, che di fronte al mio balbettare, si mettevano a ridere. Poi però, con molta comprensione, mi correggevano e allora anch’io ridevo insieme con loro. E così, giorno dopo giorno, sentivo l’Africa come casa mia, come se ci fossi vissuto da sempre. Certo rimaneva un po’ di nostalgia dell’Italia.
Ma ormai ero lì e quelli erano i miei fratelli e le mie sorelle e dovevo guardarli negli occhi, ascoltare le loro voci, le loro storie e camminare con loro. Su e giù per le colline, in mezzo alle strade a volte piene di fango, superare le decine di ponti che spesso erano privi della base e magari fare dei safari (dei viaggi) sul lago Tanganika per andare a trovare i cristiani della prima parrocchia (130 km di lunghezza) con il rischio di qualche tempesta. Non tutto è facile, soprattutto quando vedi che chi li dovrebbe aiutare a sentirsi persone (i loro governanti), approfittano con la forza e la violenza per portare via loro il minimo per vivere e per diventare sempre più ricchi. Allora ti viene voglia di reagire, sapendo che dietro ai capi, ce ne sono altri più potenti (le nazioni più ricche del pianeta che approfittano dei minerali, delle risorse…) e ti chiedi come intervenire, cosa fare per gridare a tutti che bisogna smettere di rubare loro il futuro. Noi cerchiamo di farlo, ma dobbiamo essere in tanti.
Si cerca di fare dei progetti insieme con loro, perché hanno diritto alla dignità e sono pieni di molta fantasia, sanno fare delle cose che noi abbiamo dimenticato. Fare conoscere l’Africa è un dovere (dopo tutto noi veniamo dall’Africa. La prima donna, la Lucy, è stata scoperta laggiù. I canti e la musica sono stati portati in giro dagli schiavi africani. Molte cose che noi usiamo, i famosi minerali per computer-cellulari…vengono da là, frutto del sudore di tante persone, tra cui molti bambini…). L’Africa è nel cuore. Ci sarebbero tante cose da dire, ma lo spazio è tiranno. Vedere le mamme che al mattino presto partono a piedi per andare a lavorare i campi, i papà che le accompagnano…i bambini che si fanno chilometri per andare a scuola…la messa domenicale, vissuta con gioia, danzando e offrendo i frutti della terra…il loro servizio alla comunità, dopo la giornata di lavoro…il loro visitare le persone dimenticate…il loro sorriso, nonostante le difficoltà.. e poi…venite in Africa, non da turisti, ma da cittadini di questo continente. Lo spazio sta terminando, ma nel mio cuore c’è ancora posto per qualche parola. Se ti trovi bene in Africa, ti troverai bene dappertutto. Non sono parole.
Loro ti guardano negli occhi e vedono se il tuo cuore è libero. Non puoi nascondere niente e se lo fai, allora diventi triste. Voglio terminare, sentendo intorno a me gli sguardi dolci e un po’ tristi delle mamme che danzano intorno a me e dietro loro vedo spuntare gli occhioni dei loro bambini che vedono per la prima volto un “musungu” (un bianco). Si nascondo un attimo e poi rispuntano ancora, aprendo il volto al sorriso. E così mi vien da dire “aksanti, mama Africa” (grazie). “Mungu akipenda, tutaonana tena” (se Dio vuole, ci vedremo ancora).