Emanuel Kant e le donne (1)
Aurelio Di Matteo
Non so quanti, che ieri ed oggi hanno frequentato il Liceo e lo studio della storia della Filosofia, siano stati presi dalla curiosità di sapere cosa Emanuele Kant, il metodico “orologio di Könnigsberg” e il rigido sacerdote dei principi morali senza se e senza ma, abbia pensato delle donne e quale rapporto abbia avuto nel corso della sua vita. Ai tempi della mia frequentazione del Liceo la curiosità conoscitiva su tali tematiche si trasformava in cupiditas, per dirla alla maniera spinoziana. E la curiosità diventava ancor più insistente a fronte di personaggi che nell’elaborazione del loro pensiero apparivano lontanissimi di tali territori. È il caso proprio di Emanuele Kant che, stando a ciò che appare dalla lettura di un qualsiasi manuale scolastico, potrebbe essere additato come emblematica immagine di chi con l’universo femminile non si sia mai cimentato né abbia fatto un qualche cenno nelle sue opere fondamentali.
Dopo questo ennesimo festaiolo otto marzo, che di certo non muoverà di un centimetro il cammino della società verso una diffusa parità di genere come costume e quotidiano agire dell’uomo e non soltanto come monumentale sacralità giuridica, mi è ritornata alla memoria un po’ della cupiditas conoscitiva che mi spingeva a leggere dei grandi pensatori non solo, a volte non tanto, le opere maggiori, ma quelle ritenute minori e in particolare gli epistolari. Era in questi scritti che i grandi autori, oggetto di studio canonico nei vari campi dei percorsi scolastici, si manifestavano in tutta la completezza della loro personalità. E lo era anche per quel monumento, Emanuele Kant, per i più ritenuto un po’ il Copernico della storia della filosofia.
Dico subito che di certo un Copernico non lo è stato per quanto riguarda l’universo femminile. E lo esprime con chiarezza nell’operetta Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, – una delle prime (1764) – e nei molti riferimenti dell’altra opera – una delle ultime (1798) – Antropologia pragmatica, anche questa ritenuta minore.
È stato osservato da qualche biografo che egli è morto celibe e che non abbia avuto una intensa frequentazione con le sorelle, pur in assenza di impedimenti logistici o genericamente, come si suole dire, per causa di forza maggiore.
A ciò si aggiunga che non volle mai uscire dalla sua città di nascita. Rifiutò sia la cattedra ad Halle con una retribuzione tre volte superiore a quella che percepiva lì, sia quella prestigiosa a Berlino, pur di non lasciare Könnigsberg.
Sono circostanze e comportamenti che subito fanno pensare ad un misogino e a un misantropo.
Nulla di più errato. Non si spiegherebbe la folla che in occasione del suo funerale gli testimoniò grande affetto e partecipazione. E non certamente perché avesse scritto le tre Critiche.
La sua città natale, dotata anche dell’Università nella quale fu prima nominato Magister e successivamente (1770) ordinario di logica e di metafisica, fu uno degli empori più importanti del Baltico, dove erano presenti le più rinomate e ricche rappresentanze del mondo economico del tempo. Per la sua importanza vale ciò che egli stesso dice in un passaggio della Prefazione alla sua Antropologia: “[Könnigsberg] può essere presa come sede adatta per l’ampliamento della conoscenza dell’uomo e per la conoscenza del mondo […] conoscenza che può essere acquisita anche senza viaggiare”.
Di questo è testimonianza proprio il Capitolo quarto della sua operetta giovanile nel quale tratteggia i caratteri spirituali di molti popoli, tra cui gli arabi, gli indiani, i giapponesi, in un modo tale che, ignorando la sua vita sedentaria, un lettore penserebbe il risultato di un abituale viaggiatore. Insomma non aveva tutti i torti nel dire che per conoscere il mondo non era necessario viaggiare.
La sua vita quotidiana, d’altra parte, non lo vede isolato dagli altri alla maniera dei misogini. È in una delle sue opere maggiori – Critica del giudizio – che con decisa chiarezza afferma testualmente: “Il fuggire gli uomini perché si odiano, per misantropia o antropofobia […] è cosa odiosa e disprezzabile insieme”.
Come in effetti non rifuggiva dal pranzare in compagnia. Lo dice anche chiaramente nell’Antropologia a proposito del “sommo bene fisico-morale”: “Il tipo di benessere che sembra meglio andare d’accordo con l’umanità è un buon pranzo in buona e, se possibile, anche varia compagnia”. E aggiunge, poco dopo: “il mangiar solo non è salutare per un filosofo”.
Dalle biografie di Jachmann e di Wasianski, riportate ne La vita di Kant della Laterza, si apprende che era un “frequentatore” di compagnie altolocate, tra le quali la contessa Keyserlingk, della quale era il prediletto e alle cui cene importanti era un ospite fisso.
È vero che la sua vita era metodica, abitudinaria ed ispirata ad esasperata regolarità, ma non certamente vissuta in modo appartato come potremmo facilmente pensare. Da quanto riportato dagli attenti biografi e confermato dalle notazioni che si rinvengono nei suoi scritti, il Copernico della filosofia, il rigido assertore della moralità senza se e senza ma, il sedentario per vocazione e per antonomasia, non era di certo un “solitario” e magari un misantropo.
Quanto al suo rapporto con le donne, a quello che del genere femminile teorizzò, qui basta accennare che sono ricordate, sempre nelle citate biografie, almeno tre occasioni matrimoniali avviate al sicuro “fidanzamento”, giammai concluso. Per non tediare, di ciò nel prossimo intervento. (continua)