Salerno: Itinerari di Arte e Fede “Lo riconobbero nello spezzare il pane”- La Cena in Emmaus di Ferdinando Sanfelice
Don Luigi Aversa
Lasciandoci ispirare dal tempo pasquale, vogliamo soffermarci a considerare il dipinto della Cena in Emmaus già presso il Palazzo Arcivescovile di Salerno e oggi parte della collezione settecentesca del Museo Diocesano della stessa città.
Opera del pittore e architetto napoletano Ferdinando Sanfelice, la tela ci colpisce, in primo luogo, per le sue dimensioni (242x181cm), tali da coinvolgere lo spettatore in una scena a grandezza naturale, dove anche il sapiente gioco chiaroscurale interviene a vantaggio della partecipazione emotiva.
Trovandoci di fronte alla rappresentazione di quel momento evangelico in cui Cristo accoglie il nostro bisogno di “riconoscerlo”, capiamo il senso del nostro andare: ritroviamo la meta del nostro peregrinare e, con essa, il valore del nostro “metterci in cammino”.
Camminare per incontrare!
È su questo binomio verbale che si qualifica la nostra Fede: un credere che, a ben riflettere, matura sulla “strada”, quale luogo privilegiato dell’incontro con Gesù.
È sulla strada che lo incontrano i discepoli, a cominciare da quel primo scorgerlo ad opera di Andrea; è sulla strada che cerca di vederlo Zaccheo; è ancora sulla strada che l’Adultera fa l’esperienza della misericordia e l’Emorroissa della guarigione. È procedendo con Lui verso la strada in salita del Golgota che noi tutti scopriamo il sacrificio d’amore. Ed è sulla strada segnata dalla malinconia e dal dubbio che Lui stesso ci raggiunge per darci la serenità di una presenza che ci fa dire: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno già volge al declino» (Lc 24, 29).
L’invito dei discepoli in cammino verso Emmaus diventa il preludio di una nuova “Eucaristia”, di una nuova comunione che, aprendo gli occhi, rimette in movimento:
Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: «Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino». Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista. Ed essi si dissero l’un l’altro: «Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?» E partirono senz’indugio e fecero ritorno a Gerusalemme… (Lc 24, 28-33).
In uno straordinario cambio scenico, Luca ci porta dalla strada all’interno di una casa, intorno ad una tavola, che segna il punto di avvio di un nuovo cammino, di un ritornare sulla strada per compiere una inversione di marcia che ha la dimensione autentica della conversione (dal dubbio alla fede, dalla paura al coraggio). Al centro, il gesto compiuto dal Cristo: lo spezzare il pane, che diventa azione che svela là dove si piangeva un’assenza.
È proprio questo momento a sollecitare l’immaginario visivo degli artisti che, dopo le prime testimonianze di tipo narrativo – come la placca d’avorio del Metropolitan Museum di New York, risalente al IX secolo e la decorazione plastica del Coro di Notre-Dame a Parigi del XIV secolo che pongono a raffronto i due momenti dell’Incontro e della Cena, nonché i mosaici del Duomo di Monreale che scandiscono, in sequenza, le diverse fasi della vicenda –, puntano verso soluzioni di folgorante sinteticità, incentrate sul “finale” del racconto. Questo, già affrontato da Pietro Cavallini nella chiesa di Santa Maria Donnaregina Vecchia a Napoli, si preciserà tra Cinque e Seicento, poggiando anche sulla possibilità di raffigurare scene “di genere” dal pregnante significato simbolico.
Se un precedente si può individuare in area veneta, attraverso gli esempi di Carpaccio (Venezia, chiesa del SS. Salvatore) e di Tiziano (Parigi, Louvre), il principale referente iconografico è fissato dall’interpretazione offerta da Caravaggio nelle due celebri versioni del tema, oggi alla National Gallery di Londra e alla Pinacoteca di Brera a Milano. È soprattutto la prima a caratterizzarsi in favore di una cura descrittiva nella resa degli elementi che compongono la tavola imbandita,
caricando la rappresentazione di una forte componente cristologica: significato è, in proposito, l’espediente dell’ombra della canestra di frutta che disegna sulla tovaglia la sagoma di un pesce.
Più spoglia la mensa della seconda versione che, proprio per questo, risulta più attenta a restituire l’essenza stessa dell’episodio, con i simboli eucaristici del pane e del vino posti al centro del “cerchio” tracciato dalla catena di mani stretta attorno al tavolo, ad evocare l’eterna presenza di Cristo risorto nell’Eucaristia. Sull’esempio caravaggesco si modellano le successive interpretazioni del tema, tanto più significative dal momento che offrono un’occasione di confronto con le soluzioni elaborate in ambito protestante, come quelle proposte da Rembrandt, a cominciare dalla Cena dei pellegrini di Emmaus del Musée Jacquemart André di Parigi (fig. 6): qui, la sapiente scelta luministica è funzionale alla volontà di rendere insieme il senso della rivelazione e della subitanea sparizione del Cristo Quello che avvicina la prova del Rembrandt a quelle del Caravaggio è, oltre allo straordinario gioco di luce e ombra, la drammatizzazione e il modo in cui si colgono, come in una istantanea, le reazioni dei personaggi. Una cura, quest’ultima, che fa scuola anche in area napoletana, come ci testimonia l’esito di Massimo Stanzione ai Palazzi Vaticani
La tela trova una base iconografica negli esemplari realizzati dal Caravaggio, rivelando un’interpretazione che presenta maggiori affinità con il secondo dei due esemplari, soprattutto per quanto riguarda la disposizione dei due personaggi laterali, che appaiono, tuttavia, invertiti. Un carattere innovativo si riconosce, invece, nell’apertura dello sfondo sul paesaggio e nel taglio di luce volto a valorizzare l’ovale del volto del Cristo.
Per questa via si arriva all’esemplare salernitano (fig. 8), in cui il Sanfelice, allontanandosi dalle proposte settecentesche di più squillante luminosità (come ci testimoniano le versioni di Francesco De Mura e di Paolo de Majo), riprende l’interpretazione più calma, misurata e meditativa della seconda versione caravaggesca, di cui fa memoria anche nella gamma dei colori terrosi e nei gesti intimi e contenuti. La reazione dei discepoli è tuttavia innovativa nel suo porsi a premessa del proseguo della vicenda, anticipando il loro prossimo porsi in cammino: si noti, ad esempio, la gestualità del discepolo di destra che addita la borraccia del pellegrino.
Da sottolineare è anche la volontà del Sanfelice di rinnovare la matrice caravaggesca, sviluppandola in un formato verticale, nel proposito di sottolineare la dimensione ascetica dell’evento, già marcata dal particolare atteggiamento del Cristo. Fissato nella codificata posa benedicente, Gesù solleva il capo, assecondando la rotazione degli occhi verso l’alto, secondo la soluzione già adottata dallo Stanzione.
A potenziare il concetto di rivelazione divina interviene il bagliore di luce che irradia da Cristo stesso, e che annulla i confini tra cielo e terra, come ci testimonia la porzione di nubi che irrompono nell’ambiente interno: i muri si aprono, così come si «aprirono… gli occhi» dei discepoli e riconobbero Gesù quando «fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro» (Lc 24, 30-31).