8 Marzo: riti e leggi non servono alla parità
Aurelio Di Matteo
La ricorrenza dell’otto marzo con il passare del tempo è venuta progressivamente a trasformarsi in una festa dedicata alla donna. Per cui la sua fisionomia ha acquisito valori e obiettivi che non erano presenti negli scopi che Rosa Luxemburg voleva ricordare quando ritenne di istituzionalizzare il tragico episodio avvenuto quel giorno del 1908: giornata di lotta internazionale per la liberazione delle donne dallo sfruttamento, dall’emarginazione e dalla sua condizione sociale di strumento di produzione e riproduzione.
Man mano il ricordo delle 129 operaie arse vive all’interno della fabbrica Cotton di New York, fu preso a simbolo da movimenti ed associazioni femministe e celebrato annualmente quale momento di lotta per l’emancipazione ed il riscatto della donna da oggetto passivo di piacere e di mezzo asessuato. Nel corso degli anni la ricorrenza si è arricchita di altri valori e obiettivi: lotta per la liberazione sessuale, per l’emancipazione dal ruolo di mamma e di angelo del focolaio, per il diritto all’aborto, alla pillola e quant’altro. In questa data, di conseguenza, è come se fossero ricordate altre due precedenti date fondamentali per la storia del ruolo della donna nella società occidentale: il 1835 e il 1866.
Lentamente questo simbolo ha perduto i suoi profondi significati per diventare occasione annuale per manifestazioni politiche, magari contro governi non graditi, o esaltazione e rivendicazione di spazi di “trasgressione”. In un caso e nell’altro, l’otto marzo si è colorato della tipologia, dei vizi e dei difetti propri dell’universo maschile, assumendo atteggiamenti, comportamenti e iniziative che sono speculari o comuni a quelli della cultura maschilista che si voleva combattere: spogliarelli maschili, locali per sole donne, notte esclusive e slogan politici che con i problemi della donna e della sua condizione hanno pochissimo a che fare. E su tutto questo un mare giallo di mimose per la gioia dei fiorai, cene e spettacoli solo al femminile per la gioia di ristoratori e impresari, festività aggiuntive per la felicità di docenti demotivati e alunni svogliati e disinteressati.
A me piace pensare che questa ricorrenza sia ancora quella segnata dalle tre date ricordate, perchè rappresentano la lotta per quei valori che consentono alla donna di essere persona nella pienezza e complessità della sua dimensione, perchè sono l’inizio di un cammino faticoso per grandi conquiste, battaglie civili e altrettanto grandi conquiste sociali, le quali hanno visto il concorso e la partecipazione anche dell’universo maschile perché erano battaglie non soltanto al femminile ma lotte per l’affermazione di diritti civili fondamentali per la dignità e libertà umane tout-court.
Da quando nel 1835 nacque in Inghilterra il movimento delle suffragette e nel 1866 la Svezia, per la prima volta in Europa, ammise le donne al voto, il ruolo della donna nelle società democratiche occidentali ha conquistato il pieno riconoscimento giuridico nei diversi settori della vita civile.
E non si inneggi a queste leggi, perché nella realtà manca ancora molto affinchè il principio dell’uguaglianza sia per tutti stile e pratica di vita quotidiana.
E non si chiami in causa come grande conquista dell’universo femminile la legge dello stalking, che da un lato non ha impedito il femminicidio, fenomeno in preoccupante aumento, e dall’altro è normativa che riguarda tutti gli aspetti e i settori delle attività umane. Analogamente non si consideri un successo e un segno di mutamento della condizione femminile l’aumentato numero di parlamentari donne.
Anche il comune lessico, peraltro usato proprio da Ministri donne che si sono poste come leader di emancipazione, è emblematico del provincialismo e dell’insufficienza delle soluzioni affidate a provvedimenti legislativi. Che il problema sia innanzitutto culturale, lo dimostra proprio il lessico molto diffuso che esemplifico con quello, mai dimenticato, che usò la Fornero, il ministro della ridicola “paccata di miliardi” e della grave svista degli esodati e che ancora imperversa sulle reti televisive, quando per sottolineare l’attenzione dovuta all’universo femminile fece la famosa uscita: “gli uomini devono aiutare di più nelle faccende domestiche”.
In questa espressione c’è il più becero maschilismo come diffusa cultura quotidiana. È come dire che il ruolo sociale della donna è pur sempre quello della casalinga, alla quale gli uomini “potrebbero” anche dare un aiuto! Se un ministro, per di più donna, ha parlato così, non ci sono leggi che servano.
Insomma il nostro è un Paese che non cresce economicamente e non cambia socialmente.
Le politiche a favore della donna, di conseguenza, non si attuano né con le quote rosa, né con lo stalking, né con le ricorrenze festaiole, tanto meno con i retorici discorsi, subdolamente maschilisti, di senili politici istituzionali.
L’otto marzo non contribuisce a promuovere la dignità della donna, con la sua stanca e consumistica ritualità, con le iniziative trasgressive che nascondono un inconscio desiderio di apartheid, con i neo-movimenti femministi che hanno sostituito le piccole lotte del provincialismo politico alle grandi battaglie per l’affermazione dei diritti universali in ogni luogo ove siano calpestati. Sarebbero da fare, invece, le grandi battaglie culturali, ma non il giorno dell’otto marzo; battaglie per una diffusa consapevolezza e pratica quotidiana dell’uguaglianza a prescindere, battaglie che dovrebbero vedere uomini e donne insieme, come è giusto che sia.
Si eviterebbe una ritualità non utile all’universo femminile, né ci sarebbe bisogno che il Parlamento voti leggi a garanzia di quote di rappresentanza delle donne, sia politica sia istituzionale, come avveniva, fatte le dovute differenze, con la rappresentanza delle Riserve indiane. Anche perché, di riserva in riserva, ci si avvierebbe su una strada che, escludendo, di fatto, le pari opportunità, sancisce il criterio della riserva come principio universale di salvaguardia dei diritti civili. C’è qualcuno che ricordi un ordine del giorno votato dal Parlamento nel lontano 2003 che, per equilibrare quell’80% di donne di cui era costituito il corpo docente, impegnava il Governo a recepire con Decreto legislativo sulla scuola “forme di incentivi al fine di incoraggiare il reclutamento di insegnanti maschi, in particolare nel ciclo secondario”?
Ecco dove potrebbe portare una rivendicazione al femminile sancita “per legge” e non una progressiva e diffusa azione culturale rivolta a permeare il pensare e l’agire quotidiano nei quali uomo e donna si riconoscano e siano considerati come cittadini partecipi di un comune tessuto economico e sociale.