Comunicare Dio all’uomo del XXI sec.
Prof. Maurizio Scorza*
Da un punto di vista sociologico (cfr. Max Weber), l’uomo ha sempre cercato di trovare la soluzione ai suoi problemi nella politica e nella scienza. La storia ci insegna, però, che, benché politica e scienza siano fondamentali e abbiano portato l’uomo a conquiste notevoli, questi ambiti non sono mai riusciti, e non riescono tuttora, a fornire quella speranza sufficientemente forte per affrontare la vita e il futuro. Se l’uomo vuole davvero una salvezza dalle illusioni della sua condizione esistenziale non può che rivolgersi, anche oggi, come da sempre, alla fede religiosa, che si declina nelle più svariate forme, fino ad arrivare nel nostro tempo persino all’idea di una nuova religione costituita dall’Intelligenza Artificiale. L’uomo è naturalmente un cercatore di Dio, cioè di una pienezza di vita che il mondo non può dare. Quando cerca la felicità, l’appagamento, la pace interiore egli, sia pure inconsapevolmente, sta cercando Dio. In questo quadro, il Vangelo, questa bella e buona notizia, può ancora fornire una risposta alla sete di senso che continua ad abitare nell’uomo? Oggi la sfida dell’annuncio del Vangelo deve fare i conti non solo con l’indifferenza della società post-moderna ma anche con la difficoltà di individuare linguaggi adatti alla sensibilità dell’uomo del XXI secolo. Se non si utilizza un efficace linguaggio, il messaggio rischia di non arrivare. Papa Francesco ci invita nella Evangelii gaudium a concentrarci sull’essenziale, cioè a favorire, anzitutto, l’incontro con la Persona di Gesù, il Figlio che ci apre alla conoscenza di Dio. Evangelizzare significa parlare di una Persona, il Risorto, a partire dalla nostra esperienza personale.
La Chiesa è chiamata, quindi, a sperimentare nuovi canali comunicativi, senza pregiudizi o paure, ferme restando le verità di fede. Già il Concilio Vaticano II invitava a confrontarsi con i vari linguaggi del proprio tempo, prendendo atto che la Chiesa non solo dà ma riceve anche tanto dal mondo (cfr. GS 44-45); a utilizzare le scienze umane (in primo luogo, psicologia e sociologia), accettando il dialogo con il nuovo umanesimo (cfr. GS 53-62). Anche il Direttorio per la catechesi del 2020, al n.180, afferma che il contributo delle scienze umane è «irrinunciabile» (cfr. pure i nn.194-223). Papa Francesco ha parlato di questa necessità «di aprirsi con prudenza all’apporto delle diverse discipline grazie alla consultazione di esperti, anche non cattolici;…di far tesoro del “principio dell’interdisciplinarietà: non tanto nella sua forma ‘debole’ di semplice multidisciplinarità, come approccio che favorisce una migliore comprensione da più punti di vista di un oggetto di studio; quanto piuttosto nella sua forma ‘forte’ di transdisciplinarità, come collocazione e fermentazione di tutti i saperi entro lo spazio di Luce e di Vita offerto dalla Sapienza che promana dalla Rivelazione di Dio”» (cfr. Discorso di papa Francesco ai membri della Commissione Teologica Internazionale del 24 novembre 2022). La transdisciplinarità, cioè, non è un semplice accostamento di varie discipline per affrontare un problema, ma implica un attraversamento delle varie scienze in modo che ne derivi una visione d’insieme più ricca e, nello stesso tempo, dotata di sintesi. La pluralità di linguaggi per dire l’unica Verità è una strada obbligata in una società “complessa” come la nostra, in cui dobbiamo parlare all’uomo integrale, costituito di spirito, anima e corpo (cfr. 1Ts 5, 23). Il modello è sempre Gesù, l’unico Maestro. Egli parlava alle folle attraverso parabole, elaborando suggestioni dal vissuto quotidiano delle persone (la vigna, il campo, il seme, la casa, le reti…). Lo stesso dobbiamo fare noi, attingendo al vissuto di oggi. Gesù amava comunicare attraverso le immagini, e oggi si è compreso, anche da un punto di vista scientifico, quanto sia importante ricorrere alla pedagogia della vista. Il “vedere” riguarda sia immagini astratte sia anche la gestualità, che è una componente fondamentale della comunicazione. Lo vediamo nella liturgia, in cui parole e segni sono intimamente connessi (cfr. Sacrosanctum Concilium, 1963); anzi, i segni rivestono spesso un’importanza ancora più grande, se letti sapientemente. Occorre, nell’evangelizzazione come nella vita spirituale, recuperare, quindi, anche il linguaggio del corpo. Gesù stesso ha compiuto tantissimi segni e gesti, pieni di significato: pensiamo, per esempio, ai discepoli di Emmaus, che hanno riconosciuto Gesù non tanto per le parole che ha pronunciato lungo il cammino ma per un gesto, ovvero lo spezzare il pane; oppure, ai tanti episodi in cui Gesù ha toccato le persone per guarirle o anche solo per incontrarle. Parliamo di Dio, lo rendiamo presente, quindi, anche attraverso un abbraccio, un sorriso, uno sguardo; in generale, con l’intero atteggiamento della nostra persona. Lo stesso crocifisso può essere inteso anche come un linguaggio del corpo: quel corpo martoriato ci parla, ci interroga, ci inquieta, ci comunica l’amore di Dio spinto fino all’estremo sacrificio della morte. E, nella Sua grande bontà, il Signore ci ha lasciato anche un documento di questo corpo, risorto il terzo giorno: la Sacra Sindone di Torino. Il telo sindonico incarna un linguaggio del corpo di straordinaria potenza e, attraverso gli studi scientifici, interroga fortemente la ragione. Tutto quanto c’è nel mondo di autenticamente umano, anche da un punto di vista corporeo, quindi, concorre ad annunciare, ancora oggi, il Vangelo; umanesimo e cristianesimo si incontrano sul terreno dei linguaggi perché la storia di Dio con l’uomo sia ancora narrata e diventi significativa e generativa di una vera speranza in questo nostro travagliato secolo, dove la ragione è divenuta irrazionale e il cuore stenta a provare meraviglia.
*Diacono e vicedirettore dell’Ufficio Catechistico Diocesano di Salerno