Campania: un Paradiso sconsacrato
Dott. Corrado Caso
“Napule è na carta sporca e nisciun se n’mport” cantava Pino Daniele con una smorfia di dolore e nello stadio stracolmo di giovani, tutti inseguono, ancora oggi, le sue parole e suonano e cantano sollevando le braccia al cielo.
L’agonia è una melma liquida che entra nelle case, allaga le arterie di questa città, le scuote, le apre in mille fessure rivelando un cuore malato. Alle porte di Napoli, la strada verso la terra dei fuochi è un viale maleodorante d’immondizia che risale le mura dei palazzi e diventa un cielo di fuochi e fuliggine. Un paesaggio di case imbrogliate, vie intrecciate come il cappio dei condannati, sospesi sui misteri del Vesuvio in attesa dell’ultimo cancro.
La gente rassegnata e impotente esorcizza la morte portando il fazzoletto alla bocca e “…aspett a ‘ciort…”. I cassonetti bruciati sono pietre miliari che orientano il viaggiatore e lo portano per mano nell’inferno dove, anche, la mala coscienza del nord ha avvelenato questa terra. Qui muore la speranza e le bancarelle dei giorni di festa vendono la passione di Cristo e la vita degli innocenti per trenta denari.
Chiedi meravigliato se questa è la Campania felix: “È questa la terra felice degli antichi romani?”. Il mio interlocutore ha la parlata del nord. Una diversa musicalità che nel passato amavo ma che oggi mi sembra ipocrita, monotona e irritante.
Costeggio con lui, in auto, Capo Miseno dove la flotta, romana ancorata nella baia, riflette nell’ acqua segnali di fuoco. Sembra di udire, ancora, il grido dei marinai in attesa del mare aperto, di spazi immensi, del sapore della salsedine increspata sulla cima lattescente delle onde. Nelle notti d’estate puoi ascoltare la brezza che risale il porto e udire il tumulto dei legionari che interrogano sul loro destino la Sibilla cumana che risponde senza rispondere: “Ibis redibis non morieris in bello.
Un filo di oro antico come una sottile lama entra nel tremolio di piccole onde e le anima. Il sole scende nel mare e guarda malinconico un altro mondo. Anche questa notte una fiammella di lampara si riflette nel buio dell’acqua e le anime dei morti dalle barche affogate soffiano il loro rimpianto per la vita. Ulisse entra dal mistero del lago d’Averno nel mondo dei morti. Cerca il vecchio Tiresia per conoscere dal veggente il suo destino, Enea incontra il padre Anchise che, ricostruendo con le pietre museali della pietas romana, rimpiange l’amore del figlio.
“Napoli è questo paesaggio mozza fiato?” mi chiedi.
“Napoli è un Paradiso sconsacrato” rispondo “vita e morte ingessate in una nube di cenere, pomice, blocchi solidi e gas, scagliati a diversa altezza e precipitati per seppellire intere città”. Plinio il vecchio nel 79 a.C. perse, in questa nube il suo desiderio di ricerca, il sogno della conoscenza: perse la vita. Il Vesuvio è fuoco estinto per il tempo delle illusioni in chi, imprudentemente, ha inseminato le sue pendici di case, piazze, scuole, ospedali, figli disegnando un’architettura senza bellezza che svela il destino di questa terra, la precarietà della vita e la prossimità della morte.
Il Vesuvio distrugge tutto, resetta gli errori. senza riuscire a impossessarsi dell’anima di questa città dove san Gennaro risuscita il suo sangue, lo scioglie per la gente che prega.
Le ombre della notte confondono, nel nostro viaggio, gli angoli più nascosti della città. Il tempo scorre inesorabile. Tutto sembra immobile e tutto è in movimento. Il silenzio è un obbligo, essenziale, operativo, indifferente a chiacchiere, convegni, manifestazioni, al vuoto istituzionale perché la terra dei fuochi è figlia di un Dio minore. La sua sanificazione è una trasgressione, la giustificazione è nella sperimentazione per quello che sarà, ineluttabilmente, il mondo futuro: il laboratorio nel quale sperimentare forme cariate di DNA.
La terra dei fuochi è la storia di tutti. Gli antichi credevano nella nemesi storica come un atto di giustizia ragionevole e prevedibile. Se dalla terra si sollevano “vapori, fumi e veleni che nutrono il cielo questi li restituisce con i raggi del sole perché tutto ciò che vola alto non ha barriere e i confini sono soltanto stupide illusioni senza certezze “.
Questo è l’inferno di don Patriciello! Qui la Geenna “…dove il verme (la cattiveria) non muore e il fuoco non si estingue” (dal Vangelo di Marco 9,47,49). Qui la primizia, qui un inferno snaturato, abitato da bambini senza colpa, da ventri impauriti, da condannati a una genetica avvelenata.