C’era una volta il Santo Natale
Dott. Carmine Paternostro
In bici, faticando in salita, in una mattinata d’autunno baciata dal sole, pensavo alla storia di “quel” vitreo “bottiglione” verdastro.
Doveva cominciare così un mio scritto dal contenuto diverso. Ma quel recipiente rimpianto custodiva tra tante memorie anche i ricordi dei Santi Natali, affidati all’oblio.
In premessa del nostro racconto, quale cornice, merita la dovuta attenzione l’avventura di quel recipiente, alla viglia di un trascorso Santo Natale.
“Attingete un po’ d’acqua fresca alla sorgente!” tuonò l’aulica voce della nonna materna, consegnando a noi nipoti quel prezioso cimelio, ammonendo preventivamente: “mi raccomando, cercate di non romperlo!”
Silenziosi obbedimmo, consegnati alla nuova missione.
In quei tempi, successivi alla guerra, non era in uso il consumismo moderno. Ogni utensile era prezioso. L’acqua sorgiva abbondava ed allegra sgorgava dalla roccia, in periferia del paese. Gaudenti del responsabile incarico, risalimmo la strada di pietre, di scarse auto e di molti asini e carri. Alla fresca bevuta di ognuno seguì l’imprevisto, irreparabile danno: il bottiglione pesante scivolò dalle mani e si frantumò in minuti pezzetti! Ritornare a casa? Come? Che dire? Quale accoglienza? Echeggiavano nella mente quelle frasi della nonna parsimoniosa: “Io non piango l’olio e il vino che zia
Rosa va regalando ai bisognosi, ma i bottiglioni!”
Dopo le cicatrici di guerra sbocciavano i tempi della nascente democrazia di De Gasperi. Don Sturzo, don Nicoletti facevano scuola. Mia zia, terziaria francescana, era loro allieva fattiva.
Quel bottiglione, miseramente dissolto, nei mille pezzi evaporava ricordi di un’irripetibile infanzia: la frenetica, estasiatica attesa delle festività natalizie, la libertà da impegni scolastici, la corsa sulle colline vicine per raccogliere il soffice muschio e allestire il presepe più bello.
Destavamo dal sonno pastori di gesso, gente in atteggiamenti diversi, pecore, casette cartacee. Inventavamo strade d’accesso alla grotta, il fiume con carta argentata ed infine anche la neve, con batuffoli di leggero cotone o bianca farina. Ignari della terra di Canaan copiavamo i nostri paesaggi, avvolti da un’atmosfera invernale. A mezzanotte, collocavamo tra Giuseppe e Maria, tra bue ed asinello il Bambin Gesù. La periferia del presepe era riservata ai tre cammelli, con i re Magi in viaggio.
Custodivamo le letterine degli abituali buoni proponimenti da collocare, silenziosi, sotto il piatto del genitore. Attendevamo, insomma, impazienti il regalino in danaro.
Quei soldi ci aprivano le porte di un cinema o l’acquisto di qualche giocattolo.
Allora c’era rispetto assoluto per i genitori. Qualcuno dava del “voi” e baciava rispettosamente le mani paterne.
Lo scoppio improvviso di una bombetta rimbombava nell’aria, disturbando la quiete serale. Ne seguivano altri e bagliori guizzanti nel cielo. Erano l’espressione della festa civile.
A Messa i soliti volti, nessuna presenza di nuovi devoti.
Le piazze pullulavano di gente festosa. In qualche scuola, dicono che è ignorato il presepe, non so il Crocifisso.
Ma gli eventi identificativi del Cristo non esprimono universalmente pace, amore, concordia e perdono? Il Natale non è la celebrazione di nuovo mondo nascente con Cristo?
Segue un rimbombo assordante. La Tv annuncia altre guerre, bimbi che muoiono, gente che annega.
Indosso il cappotto per ascendere all’incontro con Cristo nativo.
Nell’incedere penso ai tanti volti degli attori descritti, che, sequestrati dal tempo, non esistono più.
Il tempo insegue, raggiunge, frantuma.
Partecipi nella Grotta d’antico, ritornando nel puro respiro di bambini sereni, ribaltiamo la storia che fu, oltre l’epoca del nostro destino.