I nemici della società aperta secondo Karl Popper
Fulvio Sguerso
Un’ organizzazione sociale che sia olistica e organica, cioè paragonabile a un organismo biologico strutturato in modo tale che tutte le sue parti siano funzionali alla vita del corpo a cui appartengono, è un’organizzazione in cui gli individui “sono tenuti insieme da vincoli semi-biologici: parentela, vita in comune, partecipazione agli sforzi comuni, ai pericoli comuni, alle gioie comuni e ai disagi comuni. Essa è ancora un gruppo concreto di individui concreti, legati tra loro non solo da rapporti sociali astratti come la divisione del lavoro e lo scambio delle merci, ma da relazioni fisiche concrete come il tatto, l’olfatto e la vista. E benché una società siffatta possa essere fondata sulla schiavitù, la presenza degli schiavi non presenta problemi fondamentalmente diversi da quelli degli animali domestici.”E’ questo il tipo di società che Popper, sulle orme di Bergson, definisce “chiusa”, in quanto si ritiene autonoma, autosufficiente e, dal momento che sarebbe assurda una ribellione di un organo del corpo contro altri organi dello stesso corpo – come ben illustra il celebre apologo di Menenio Agrippa -, perfetta; tanto che rifugge da ogni cambiamento o mutamento sociale come dalla peste, perché non potrebbe che cambiare in peggio, corrompersi e degenerare (come d’altronde racconta il mito ellenico della decadenza dell’umanità dall’età dell’oro a quella del ferro, e quello biblico della cacciata di Adamo ed Eva dal paradiso terrestre). In una società aperta, invece, gli individui tendono ad elevarsi socialmente e a prendere il posto di altri individui, e questa tendenza “può condurre a un fenomeno sociale importante come la lotta di classe.” Importante ma anche devastante per gli assetti di potere e di dominio considerati “naturali”, e quindi sacri e intoccabili in quanto emanazione della (o delle) divinità; in una società chiusa ognuno sa qual è il suo posto e quale funzione deve svolgere, e a nessuno viene in mente di sovvertire l’ordine costituito non dagli uomini ma da Dio (anche perché, se mai gli venisse in mente, verrebbe immediatamente espulso o soppresso). Nel suo polemico e ponderoso saggio La società aperta e i suoi nemici (1944) Popper accusa lo storicismo essenzialista, il profetismo metafisico e l’utopismo, che da Eraclito a Platone a Hegel a Marx hanno dominato la cultura occidentale, di aver costruito i fondamenti ideologici e preparato il terreno al totalitarismo fascista, nazista e comunista che, invece che al promesso paradiso, ha portato all’inferno sulla terra, alla guerra totale e allo sterminio di milioni di persone nei lager e nei gulag. Come è stato possibile? E quali responsabilità sono imputabili addirittura a Platone, e, in particolare, alla sua città ideale descritta nella Repubblica? Uno dei peccati originali della politeia platonica è di essere costruita a partire dalla domanda: “Chi deve governare perché ci sia giustizia ?”. E’ chiaro che tutta l’architettura (la costituzione) della città ideale, quindi giusta e anche bella, verrà disegnata intorno a chi può dare la massima garanzia di agire per il bene di tutti e non per il proprio, e men che meno per i propri interessi; e siccome non è possibile agire per il bene di tutti senza conoscere non questo o quel bene particolare ma il bene in sé, solo chi conosce il bene in sé ha il diritto e il dovere di governare. Ora, dato che per Platone non è possibile conoscere il bene in sé se non ci si libera dalle illusioni dei sensi, dalle passioni, dalle false opinioni, dalle ambizioni, dall’egoismo e dall’avidità di possesso, di potere e di ricchezza, insomma se non si perviene alla conoscenza vera di ciò che è, e che quindi non può cambiare altrimenti sarebbe sempre qualcosa di diverso – mentre ciò che è è sempre identico a se stesso – i più rimangono al di qua, o meglio, al di sotto della linea che separa l’opinione dalla scienza, e solo una ristretta élite potrà raggiungere, alla fine di un lungo e rigoroso percorso di studi, la conoscenza vera di ciò che eternamente è. E gli altri? Gli altri, cioè la bassa forza dei lavoratori – artigiani, contadini e mercanti – e la classe intermedia dei custodi e guerrieri – dovranno confidare e affidarsi ai governanti filosofi, i quali agiranno per il meglio e per l’armonia dell’insieme come detta, tra l’altro, madre natura, così che nessuno sia e si senta fuori posto, e nessuno pretenda di avere quello che non gli spetta. Non è meraviglioso? Per una società chiusa, cioè tribale, forse sì; anche se nella polis ideale platonica non hanno diritto di cittadinanza i malati inguaribili, i tarati, i dissidenti, i marginali (e nemmeno gli artisti non di regime). E poi, chi ci assicura che i governanti filosofi agiscano sempre per il bene? Possibile che siano così infallibili? La domanda giusta quindi non verte su chi deve comandare, ma su come controllare e, se è il caso, su come difendersi da chi comanda. Ma porsi simili domande significa già intaccare la sacralità delle leggi della città ideale, e aprire la strada alla aborrita società aperta, cioè liberaldemocratica, nella quale i singoli cittadini sono chiamati a prendere decisioni personali secondo la loro coscienza. E sta proprio qui il nodo: in fondo, in una società magica e tribale, tutto è regolato dall’alto e i singoli sanno di essere parti di un tutto che è così ordinato da sempre, e sarebbe follia disobbedire; in una società aperta e democratica, ognuno è libero di scegliere valori e comportamenti diversi, purché nei limiti della legge. Ma chi stabilisce i limiti della libertà, cioè la legge? La legge medesima, votata a maggioranza dai cittadini, anzi, dai loro delegati. Niente di tutto questo è previsto nella città ideale platonica, le leggi non sono quelle umane ma quelle della natura o degli dei, interpretate dai re-filosofi. E la giustizia? Consiste nell’armonia delle tre parti (razionale, irascibile e concupiscibile) così dell’anima come della città e nella giusta misura del rapporto tra i singoli e la città nel suo insieme. Questo, naturalmente, nella società chiusa. E nella società aperta? “Una volta che si sia cominciato a fondarsi sulla ragione, ad usare la nostra capacità di critica; una volta che si sia avvertito l’appello delle responsabilità personali e, con esso, anche la responsabilità di cooperare all’avanzamento della conoscenza, non possiamo più ritornare a uno stato di implicita sottomissione alla magia tribale. Per coloro che hanno assaggiato il frutto dell’albero della conoscenza, il paradiso è perduto. Quanto più ci sforziamo di tornare all’età eroica del tribalismo, tanto più sicuramente arriviamo all’inquisizione, alla polizia segreta, al gangsterismo romanticizzato.” Non ci rimane dunque, se non vogliamo tornare allo stato ferino ma vogliamo restare umani, e, anzi, diventare sempre più umani, proseguire con coraggio verso l’ignoto, solo confidando nel lumicino della nostra ragione. Sempre che non si sia spento lungo il cammino.