“Orizzonti di Mezzanotte” di Michele Ingenito: -55
Dal Capitolo 8 Missione Parte prima 28 settembre 2002 – La squadra
Pochi giorni prima, nella notte che precedette la partenza per la capitale pakistana, il truccatore aveva fatto un ottimo lavoro. Dalle 23.00 alle 2.00 del mattino del 23-24 settembre, Mustafà Lutuf Arobas, libanese, parrucchiere di professione ed ex-truccatore dei clowns del circo di Berlino, lavorò con cura e attenzione su quel volto ancora troppo giovane per somigliare ad un navigato commerciante di riso.Una maschera di pelle sottilissima, perfettamente aderente al viso, risolse il problema. Baffi grigi e un numero di rughe ben visibili adeguarono il volto del personaggio a quello di un cinquantenne. Senza stravolgerlo, ma sufficiente per sfuggire alla memoria di chi potesse associarlo, lì per lì, a quello autentico e vero. Quattro giorni dopo il suo arrivo, Mohammed Al Jafar incontrò la squadra. Dieci uomini, presentatigli da un fratello influente di Karachi, giunti in Pakistan ventiquattro ore prima. Come luogo dell’incontro fu utilizzata la stessa villa. Gli uomini giunsero di pomeriggio, alla chetichella, tre o quattro per volta, senza farsi notare. I taxi utilizzati provvidero a trasportarli con sufficiente sicurezza e discrezione. Tre di loro ammisero di essere yemeniti, altri tre iraniani, due iracheni, uno libanese e l’altro, il più anziano, siriano. Mohammed avrebbe preferito una squadra più compatta dal punto di vista della nazionalità. Ma, così gli era stato garantito, quegli uomini rappresentavano il meglio degli specialisti disponibili sul mercato, perfettamente adeguati, per affidabilità, determinazione e preparazione, al ruolo richiesto dalla missione. Il piano fu illustrato a grandi linee all’intero equipaggio. I dettagli, invece, solo all’uomo incontrato da Mohammed separatamente, quel pomeriggio stesso, subito dopo la preghiera del tramonto.————- Si chiamava Hamid Sruji Okal e sarebbe stato lui il comandante della nave. A lui soltanto l’agente siriano confidò i piani dettagliati della missione, camuffati, ovviamente, da quelli ufficiali. Pur senza definirne i particolari nei minimi assoluti, il commerciante di riso gli parlò dei lavori di adattamento della nave per la realizzazione di un vano speciale nella zona di poppa. Ciò allo scopo di ospitare un mezzo altrettanto speciale, di cui, però, tacque il modello e le caratteristiche. Solo dopo, la Jamila sarebbe salpata per l’Europa. Non sarebbe mai giunta ad Amburgo, naturalmente, nonostante l’ingente carico di riso effettivamente trasportato. Tutto questo, però, doveva ancora rimanere un segreto. — La sua meta, quella finale, — disse Mohammed al comandante — non sarà la Germania, bensì l’Italia! Indugiò qualche istante, nell’attesa di una domanda. Che non venne. Quell’uomo di una trentina di anni appena non replicò. Continuò a rimanere in silenzio, lasciando libero l’interlocutore di proseguire. Mohammed ne apprezzò il riserbo. Era un giovane alto e magro, dall’espressione seria e taciturna. Consapevole della responsabilità assunta per una missione a cui le più alte autorità spirituali lo avevano destinato insieme ai suoi compagni, ne viveva già la condizione. Era un soldato votato alla causa dell’Islam contro gli infedeli. Aveva lasciato da tre anni il posto di comandante in seconda di una nave mercantile yemenita, per essere reclutato nell’esercito transnazionale del terrorismo islamico internazionale. Era noto per i suoi ideali e per la fede assoluta nella lotta contro i nemici dell’Islam. Gli israeliani gli avevano ucciso un fratello, combattente volontario per la causa di Hamas. Accadde durante un rastrellamento per le vie di Gaza, pochi mesi dopo che il giovane aveva lasciato famiglia e genitori, per trasferirsi dalla periferia di Damasco, dove viveva, in Palestina.————- Il giorno della tragedia, nascosto dietro un vicolo, Ata iniziò a scagliare sassi assai pesanti all’indirizzo di un autoblindo dell’esercito nemico in transito lungo una delle vie principali della città.Una settimana prima, un suo più giovane amico, Mohammed Jemal Turk, di appena sedici anni, era stato gravemente ferito al braccio da una pallottola di gomma sparatagli da un soldato israeliano da distanza ravvicinata. Quando la torretta del pesante mezzo militare roteò all’indie-tro, nella sua direzione, il giovanissimo Ata, meno di diciotto anni, non fuggì. Forse, sperò anche lui nelle pallottole di gomma. O, forse, se ne infischiò. Come la stragrande maggioranza dei giovani palestinesi votati alla morte, era nel cuore dell’età ideale per farlo anche lui. Sacrificarsi, cioè, senza particolari riflessioni, senza esitazione, svendendo la vita, privilegiando la morte. Continuò, quindi, a scagliare grossi sassi, da non oltre dieci metri di distanza, mirando proprio alla torretta blindata. Per un pelo, una sassata non finì all’interno della feritoia di protezione. La scheggiò soltanto. Ma il ragazzo non fece in tempo a esultare. Una pallottola, vera questa volta, lo centrò alla fronte, fulminandolo all’istante. Cadde all’indietro, stramazzando pesantemente al suolo, l’ultimo sasso ben stretto tra le mani, il capo rivolto in direzione della luce. E di Allah. Nella stessa direzione verso la quale i musulmani orientano il volto dei cadaveri, prima di dar loro sepoltura. Verso la Mecca, verso la direzione dei giusti, diversamente dall’altra, riservata ai traditori. All’inizio, il sangue defluì lentamente, poi sempre più copioso, lungo il naso e la bocca, cospargendogli il viso e arrossando i suoi lunghi riccioli neri. La polvere della strada non asfaltata prosciugò rapidamente il plasma non più prezioso della vita. Le prime urla di disperazione e di dolore s’intrecciarono confuse con le maledizioni veementi urlate contro l’autoblindo nemico. Dall’interno della torretta che si allontanava non giunsero gli urrah degli occupanti, esaltati per la rappresaglia appena consumata, dopo l’attentato mortale del giorno prima contro un autobus di bambini ebrei, inermi e innocenti, diretti a scuola. Ma quelle voci di giubilo erano nell’aria, registrate dalla sensazione strana che accompagna le vittime inermi, sempre pronte a percepire il triste canto dell’odio di un nemico immerso nel gaudio per la vendetta appena consumata. Purtroppo, anche gli ebrei, come loro, avevano da poco vissuto quell’ennesimo dramma di una guerra infinita e senza senso, a cui la quotidianità degli attentati non concedeva né pause né sconti. I volontari del gruppo Zaka avevano lavorato per due giorni e due notti di seguito, nel tentativo di rimuovere e, poi, di ricomporre i corpi di decine di morti e feriti, uccisi da un kamikaze fattosi esplodere in un ristorante affollato al centro di Gerusalemme, tra le vetrine delle boutique e di altri luoghi di ristoro di Jaffa Road, King George Street e Ben Yekuda Street. Ma a Hamid tutto questo non diceva proprio nulla. A lui importava solo vendicare, prima o poi, la morte del fratello e di tutti quelli che, come lui, odiavano gli ebrei e gli americani. (…)