“Orizzonti di Mezzanotte” di Ingenito 28°-7 agosto 2011, giorni: -35
Dal Capitolo 28- Il mare, i ricordi Parte prima Bollicine
Ora che aveva anche lui superato da diversi anni la sessantina, Costabile pensava spesso con nostalgia al passato. A suo modo, e diversamente dall’idea che ne aveva Antonio, era anche lui famoso nel piccolo borgo marinaro dal quale si era allontanato quasi cinquant’anni prima, imbarcandosi a sedici anni appena compiuti. Suo padre non ci pensò due volte, dopo l’ennesimo e inutile tentativo di farlo studiare. L’amore per il mare ne fu la causa. Costabile viveva di spiaggia e di pesca, sin da bambino. Portava il pesce ai ristorantini distribuiti su quel tratto di costa e si guadagnava i primi soldi sufficienti a farlo sentire grande e indipendente. Un pretesto ingenuo per allontanarsi “seriamente” dagli studi. I libri, la scuola, la maestra prima e i professori dopo, divennero per lui né più né meno che un optional, di cui fare tranquillamente a meno. Amava soprattutto la pesca dei totani, inculcatagli dal padre sin da piccolo, diventandone negli anni un vero e proprio ‘asso’. Per il povero genitore, invece, amaramente pentitosi dell’antica severità, fu il modo peggiore per vedersi schizzare la pressione, giorno dopo giorno, per anni. Tutto, come spesso avviene, accadde molto tempo prima, per pura coincidenza. Una di quelle coincidenze che segnano, nel bene e nel male, le tappe della vita e che, come tali, vengono altrettanto spesso rievocate dall’uomo alla vigilia della resa dei conti con Dio. Nell’elogio o nel rimpianto delle proprie azioni e, soprattutto, degli effetti e delle conseguenze derivati al prossimo in conseguenza del proprio comportamento. Per il vecchio genitore di Costabile quella tappa maturò nel giorno in cui decise di mettere seriamente alla prova il suo unico figlio maschio. Lo imbarcò, infatti, come aspirante cuoco su un mercantile in rotta da Napoli per i paesi arabi. Era una nave greca della Typaldos Line. Alla fine degli anni quaranta, nel mese di agosto 1949, aveva avuto la fortuna di conoscere personalmente l’armatore. Un bell’uomo, innamorato della costiera amalfitana, capitato per caso a Conca dei Marini e rimasto ospite per l’intero mese nella villa della signora Chandon, titolare dell’omonima e famosa casa di champagne francese, meglio nota come Moët&Chandon. Erano i tempi della costa vergine, dal mare pulito e intatto nella trasparenza dei suoi colori, sempre cangianti tra il mattino presto e l’imbrunire: azzurro intenso prima, verde cupo, poi, con il passare delle ore, e, ancora, un misto di azzurro e verde chiaro intorno a mezzogiorno. Infine, sul far della sera, una nuova variabile tinta tra l’azzurro e il grigio scuro, amalgama intenso e indefinito, da cui poteva sentirsi esclusa la trasparenza a causa delle alghe. Non la pulizia e, quindi, la salute stessa del mare, il suo benessere, per sé e per l’uomo. Un giorno sì e un giorno no di quell’agosto 1949, Domenico, soprannominato “Minico”, andava in villa per portarvi ceste di pesce fresco, di solito l’intero pescato della notte precedente. Prendeva pochi soldi. Non esagerava, nonostante le insistenze della proprietaria.— Mi accontento del necessario. — le diceva. — Quanto basta per sfamare i miei figli. La guerra era finita da pochi anni, il turismo pressoché inesistente. La sopravvivenza garantita era quanto di meglio ci si poteva aspettare. E, poi, l’onore di conoscere personalmente quella gente valeva molto di più del denaro contante. Così ragionava “Minico”, fu così che conobbe Mr Typaldos. Una sera fu invitato a cucinare una gran quantità di totani che avevano abboccato poco prima alle lenze dei suoi due fratelli, anch’essi pescatori. Si portò con sé quello sfaticato di Costabile. Di malavoglia, il ragazzo, ormai quindicenne, lo seguì. Aveva dovuto rinunciare alla pesca con gli amici per accompagnare il padre. Si lasciò convincere solo dall’idea di potere collaborare a quella frittura e al resto delle cotture varie. «In cucina sono bravo.» si disse. «Farò vedere io a questi signori come si mangia il pesce!» Si convinse da solo, soddisfacendo, da una parte, l’ingenuo orgoglio giovanile di potere dimostrare quanto valeva, e riducendo, in pari tempo, la sofferenza della sua rinuncia all’ennesima battuta di pesca. Nella grande cucina della villa, messa per l’occasione a sua disposizione, “Minico” iniziò il rito della cottura dei totani, ignorando il broncio della cuoca, un’anziana donna del luogo indispettita per l’affronto subìto. Erano ancora rossi e vivi, sui quattro-cinquecento grammi ciascuno, in qualche caso anche oltre, tra gli uno e i due chili. Poggiati sul grande marmo della cucina, i molluschi continuavano a spruzzare tutto intorno il residuo liquido nero, inutilizzabile ai fini della degustazione rispetto a quello delle seppie, man mano che padre e figlio li afferravano per sciacquarli e pulirli prima della cottura. I due arretrarono più volte, infastiditi dagli schizzi in pieno viso. Alla fine, vista l’ostinazione dei totani più grossi troppo restii a morire, si ripulirono il volto alla buona con due stracci a portata di mano. Poi, con il pesante martello piatto solitamente usato per ammorbidire la carne, cominciarono ad assestargli alcuni colpi ben mirati in testa, uccidendoli. Li lavarono ben bene per la seconda volta, tagliandoli ad anelli e dando inizio ai vari tipi di cottura. In prevalenza, fritti o alla griglia, ma anche al sugo. Colarono a parte gli spaghetti, prima di condirli con pomodorini gustosi e profumati. La servitù provvide al resto. (…)