Genitori e figli di un dio minore
Pochi giorni fa in un ospedale salernitano sono state date alla luce due gemelline da una donna cinquantasettenne, che, nell’immediatezza dell’evento,ha avuto modo di affermare: “ho coronato il sogno della mia vita, per questo ringrazio il Signore e sono certa che mi darà la forza, insieme a mio marito, di seguire le nostre due bambine”. A Salerno si è, dunque, vissuto un momento di intensa felicità, sul quale dovremmo evitare qualsivoglia commento che possa essere condizionato da mere posizioni ideologiche. Difatti di fronte alle cronache,che sempre più portano a conoscenza di donne orientate a scegliere la maternità in tarda età, ricorrendo alle tecniche della procreazione medicalmente assistita, dovremmo interrogarci sugli aspetti scientifici di siffatta scelta e non su quelli etici. Diversamente potremmo non essere sereni nelle nostre valutazioni, che correrebbero il rischio di essere viziate da posizioni preconcette. Indubbiamente il bisogno di maternità ad ogni costo ed oltre i limiti di un’età biologicamente consentita dovrebbe essere regolato anche dal punto di vista normativo, tant’è che in questi giorni un tavolo tecnico interregionale sta approntando dei controversi criteri temporali (42 anni,11 mesi e 29 giorni), relativi alla fecondazione assistita in carico al servizio sanitario nazionale. Ma, al di là di tali aspetti, abbiamo elementi oggettivi su cui fondare la valutazione dell’idoneità ad essere genitori, avendo riguardo solo al criterio cronologico? Possiamo dire con certezza che se si è sessantenni non si è un buon padre o una buona madre? Se la risposta fosse affermativa dovremmo avere l’onestà intellettuale di dire che tutti i genitori in età giovanile assolvono bene i compiti connessi al proprio ruolo sempre e comunque. D’altronde il bisogno primario di paternità o maternità non può sempre costituire la giusta motivazione a mettere al mondo dei figli ricorrendo alla procreazione assistita, se non è accompagnato da un’adeguata e specifica presa d’atto della realtà. Il terreno di discussione appare, conseguentemente, particolarmente scivoloso, perché troppe sembrano le interdipendenze tra i vari aspetti della questione. Ne sanno qualcosa i genitori di una bimba di 16 mesi che, divenuti tali all’età di 56 anni per la madre e di 68 per il padre, si sono visti togliere la figlia di soli 2 mesi, perché ritenuti inidonei a svolgere i propri rispettivi ruoli. Nell’immediatezza si era diffusa la notizia che la decisione della magistratura fosse stata viziata proprio dall’età avanzata dei genitori, perché in un passaggio della sentenza del Tribunale dei Minorenni di Torino si legge che essi “non si sono posti seriamente domande in merito al fatto che la figlia si ritroverà orfana in giovane età”. Sollevatosi il polverone mediatico, si è prontamente corretto il tiro e si è parlato di abbandono della neonata per un singolo episodio, ma su tale criterio di giudizio mi permetto di sollevare dubbi, perché l’abbandono consta di correlati comportamenti reiterati e ripetuti nel tempo e non di un solo accadimento. La pronuncia conseguente di adottabilità del minore è stata suffragata da una serie di relazioni peritali, in cui si sostiene che “il padre ha scompensi in senso dissociativo e psicotico e la madre non stabilisce con la figlia contatto emotivo, mostrando una ferita narcisistica intollerabile”. Sono dell’opinione che la mamma di quella bimba, se si fosse trovata in tale condizione, avrebbe immediatamente calcato le scene televisive già 14 mesi fa, allorquando la figlia le fu tolta; invece ha atteso con il marito la sentenza del tribunale ed ora ha annunciato pubblicamente che a tale decisione si opporrà in appello. In tale sede ad entrambi i genitori competerà l’onere di dimostrare che la figlia non l’hanno abbandonata, che le vogliono bene, che l’hanno cercata per 20 anni e che, dopo ben 10 tentativi di fecondazione assistita e varie richieste di adozione naufragate, l’hanno trovata. Se il problema è che la loro tenacia sia stata scambiata per narcisismo, saranno i periti a dimostrarlo. Se, invece, la vera questione è l’età, perché la donna salernitana cinquantasettenne ha deciso di correre il rischio di essere un domani vagliata nella sua idoneità di madre dai servizi sociali? Ma, forse che il reale quesito attiene all’uso delle tecniche della procreazione medicalmente assistita “senza se e senza ma”, perché, se la risposta a tale domanda fosse positiva, ci troveremmo di fronte all’ennesima sconfitta della Politica. La magistratura non può né deve colmare vuoti normativi , come sempre più spesso accade in tema di fecondazione assistita. Se la coppia piemontese si è recata all’estero per effettuarla, a causa del divieto impostole dalla legge n. 40, è chiaro che qualsiasi decisione non dovrà giammai apparire come una punizione, che colpisce soprattutto una bimba inerme a respingere attacchi ideologici. A meno che pensiamo che Viola (il nome di fantasia attribuitole) sia figlia di un dio minore, come pure i suoi genitori, rei di averla desiderata fin troppo. L’art. 3 della Costituzione dovrebbe consentire alla madre piemontese di essere uguale nei diritti a quella campana, anche se non può di certo evitare che, mentre Gianna Nannini sia elevata sugli altari della gloria mediatica, una madre sconosciuta venga infangata dai giudizi negativi sul suo legame affettivo verso la figlioletta. Se quella donna, insieme al marito, riuscirà a dimostrare le proprie ragioni, alla fine otterrà la bimba, ma a molti di noi rimarrà l’amara sensazione del fallimento, perché ancora una volta alle istituzioni pubbliche è stata concessa la possibilità di guardare alla sostanza delle situazioni e come al solito si sono lasciate prendere dalla forma con cui esse si sono presentate o, peggio ancora, con cui altri le hanno presentate.