Salerno: il realismo di Guttuso al Catalogo
La galleria salernitana Il Catalogo di Lelio Schiavone e Antonio Adiletta, in occasione dell’inaugurazione della sua quarantaquattresima stagione espositiva, offre alla città un percorso espositivo, curato da Massimo Bignardi, dedicato a Renato Guttuso, nell’anno celebrativo del centenario della sua nascita. Guttuso ritorna a Salerno e ritorna in una galleria privata, in un momento in cui le sue opere vengono esposte unicamente in spazi istituzionali. Ritorna il suo segno perché Guttuso è di casa al Catalogo, uno dei primi ad esporre tra le sue mura, a cominciare dal 1973, a pochi anni dall’inaugurazione, e ancora nel 1978, nel corso degli anni Ottanta con il ciclo dei Tarocchi e nuovamente nel decennio successivo, sino al Duemila, in un confronto diretto con Ennio Morlotti e Bruno Cassinari. La mostra, che sarà inaugurata sabato 29 ottobre alle ore 19,30 e sarà fruibile sino al 25 novembre, comprende sedici opere, tra inchiostri, olii e litografie, si apre con “Colomba”, un collage e tecnica mista su tela del 1958, per chiudere con una veduta della sua Palermo, in una litografia del 1985, inizio e fine di un percorso, analizzato in un catalogo realizzato da Massimo Bignardi, che, naturalmente, non si propone la ricostruzione esaustiva dei movimenti cui Guttuso partecipò in quegli anni, quanto la funzione, da protagonista, che egli ebbe al loro interno. È l’occasione per restituire, intatto, non solo quel clima di collaborazione che non si sarebbe più ripetuto, ma anche la complessità, la diversità dei linguaggi espressivi che sono andati a comporre il segno dell’artista. Invero, l’arte di Renato Guttuso è costantemente intrisa di emergenze metaforiche, cosicché una dispiegata simbologia, permeante inequivocabilmente i messaggi etici delle superbe nature morte, perviene all’apogeo dell’eloquenza pittorica e all’abbrivio di una sosta meditativa che accendono il dinamismo della ragione. Ne sono sublimi esemplari le creazioni dei due inchiostri “Polli al gancio” del 1974 e “Cavolo” del 1972 summa strutturale e segnica di un’analisi grafica e stilistica che abbraccia, euritmicamente, ogni stagione espressiva, nell’urgenza di sondare qualunque anfratto di empito umano. Si comprende a pieno come l’artista, per una esigenza di immediatezza dialogica, non condividesse l’ermetismo dell’astrazione informale e si affidasse ad una ricerca figurale, secante la modernità ed incidente la diffusa e immanente comprensione. Anche l’eros, tanto presente nei procaci e suadenti nudi femminili, che possiamo ammirare in “Zeliss a Uzbek”, da “Lettere persiane” del 1973, rappresenta, invero, una conquista di dignità, unitamente ad una presunta vittoria del piacere sensuale sulla sofferenza spirituale, poiché l’ebbrezza dell’assoluto fisico abdica, sovente, alla coltre della solitudine. Amore e morte appaiono tangenti, quasi entità solidali e complici, che all’accensione di un’infinita, frenetica vitalità riserbano un declino di thánatos. Allora, pur con soste di riflessione, la vita si lascia fluire nell’alveo di un panta rei che distrae dall’incombenza del dolore e si affida ad una consuetudine spesso rassicurante.