U.S.A. vs Cina, quel primato che vale il mondo

Amedeo Tesauro

Stati Uniti e Cina, due colossi a confronto. Succede a Londra, era già successo a Pechino, e succederà ancora ben al di là delle regole delle discipline sportive di casa alle Olimpiadi. Dietro lo scontro sportivo si cela quello decisivo per l’egemonia mondiale, cosicché le Olimpiadi finiscono per essere metafora di quanto avviene su scala più ampia. Lo sport in generale è sempre stato riflesso delle controversie internazionali, basterebbe soltanto tornare a un mese fa e spulciare i giornali tedeschi affranti per la capitolazione in campo calcistico della loro nazionale a vantaggio dell’Italia di Prandelli, debacle associata col (presunto) passo indietro della Merkel di fronte alle richieste dei paesi europei rappresentati nella persona di Mario Monti; il risultato una psicosi di massa in cui spread e palloni in rete si confondevano nei discorsi di opinionisti sportivi diventati improvvisamente politologi e viceversa. Le cronache delle Olimpiadi in particolare sono costellate da scontri simbolici, di gare sovraccaricate di significato, di tensioni inesplose o purtroppo degenerate come avvenne a Monaco nel 1972 quando un commando terrorista palestinese fece irruzione negli alloggi israeliani provocando una strage. In epoca di guerra fredda furono i reciproci boicottaggi sovietici e statunitensi a Mosca 1980 e Los Angeles 1984 a segnare una brutta pagina nella storia dei cinque cerchi. Non sorprende dunque quanto sta avvenendo a Londra, dove tra una gara e l’altra infuriano le polemiche tra gli Stati Uniti, reduci dall’unica manifestazione olimpica senza primato nel medagliere in casa dei nemici, e la Cina determinata a ripetere la prestazione di casa dove guadagnarono il primo posto nel computo degli ori. Del resto non può passare inosservato il progresso cinese, dalle 15 medaglie d’oro del 1984, risultato pressoché uguale ad Atlanta 1996 con 16 medaglie del materiale più pregiato, alle 51 di Pechino quattro anni fa. Nella scalata cinese alla vetta del medagliere ci sono simbolicamente quindici anni di crescita economica vertiginosa, quindici anni di soddisfazioni per un paese che ne aveva viste troppe: arrivato agli albori del Novecento con un impero millenario, mezzo secolo di guerra civile vinta infine da Mao Tze Tung, il duro regime comunista e lo sviluppo  in potenza industriale all’insegna del capitalismo più sfrenato. Ancora, cosa si nasconde sotto il sospetto doping per Ye Shiwen, oro nei 400 e nei 200 misti con parziali maschili, se non tutte le accuse rivolte negli anni alla Cina e alla sua folgorante ascesa? C’è l’invidia e il rancore statunitense che vedono la potenza cinese raccogliere lì dove tradizionalmente raccoglievano gli americani, la consapevolezza che i nuovi rivali invadono discipline appannaggio degli atleti stelle e strisce così come invadono mercati rubando terreno agli Stati Uniti fino a imporsi definitivamente. L’invidia sarà poi una brutta bestia, ma già in passato gli americani avevano fronteggiato tempi e prestazioni record da parte degli allora rivali sovietici, salvo poi scoprire l’ombra lunga del doping a sporcare i successi, così come le libertà individuali violate e la concorrenza all’insegna dello sfruttamento inficiano l’immagine cinese. Le Olimpiadi veicolano il messaggio forte di una supremazia che va svanendo consegnandoci il nuovo dominio cinese, magari poco pulito ma effettivo. Proprio nelle ultime ore è arrivata la critica da parte del segretario di stato americano Hillary Clinton agli investimenti cinesi in Africa, colpevolizzando la Cina di sfruttare il territorio senza dare nulla in cambio. Ironia della sorte era la stessa Clinton, in un cablogramma datato 20 marzo 2009 e diffuso nei files di Wikileaks, a rivelare la realtà delle cose con riferimento alla posizione cinese di primo creditore statunitense: “Come si può negoziare duramente con il tuo banchiere?”