Gambero inglese!
Tre passi avanti e uno indietro. Lingua inglese sì nelle elementari, medie inferiori e superiori; no nelle università. In determinate facoltà, almeno. Va avanti così la riforma Gelmini. A singhiozzo, come il gambero. Inglese per tutti; anzi no. Perché nel decreto di giugno sulle nuove classi di laurea breve l’inglese come insegnamento scompare, non rientrando più tra gli obiettivi formativi qualificanti di alcune facoltà: ad esempio, per Scienze dell’Economia e della Gestione Aziendale (L-18) e per Scienze Economiche (L-33, un doppione?). Eppure gli sbocchi occupazionali e professionali esplicitamente richiamati dalla norma riguardano, tra l’altro, le aziende, la pubblica amministrazione e le libere professioni, così come enti a vario titolo, nazionali ed internazionali. Quindi l’insegnamento dell’inglese, almeno, dovrebbe essere automaticamente obbligatorio. Per legge. Come per le scuole elementari e medie. E, invece, no. Per i futuri laureati in economia (laurea breve), quegli obiettivi formativi “possono”– come dice la norma, (non devono, quindi) – solo “prevedere la conoscenza scritta e orale di almeno due lingue dell’Unione Europea, oltre all’italiano…” Il risultato? Via le lingue. Perfino per la laurea magistrale in Scienza dell’Economia (LM-56), nessun insegnamento obbligatorio di inglese. Con una vistosa contraddizione, però. Infatti, a fronte dell’inesistenza degli insegnamenti linguistici, gli obiettivi formativi qualificanti della laurea magistrale prevedono, diversamente dalle triennali, l’obbligo “di utilizzare fluentemente, in forma scritta e orale, almeno una lingua dell’Unione Europea, con riferimento anche ai lessici disciplinari.” Il che vuol dire che i futuri laureati in Scienze dell’Economia (laurea magistrale!) non solo dovranno conoscere a livelli alquanto elevati una lingua dell’Unione Europea, ma anche i relativi linguaggi specialistici. E, allora, prima domanda, signor ministro. Visto che, nelle due lauree triennali citate, gli obiettivi formativi qualificanti non obbligano gli studenti alla conoscenza di una lingua europea né, tanto meno, le facoltà ad attivare quegli insegnamenti linguistici (l’inglese, ad esempio), come potranno, poi, quegli stessi studenti, acquisirne la conoscenza nella successiva laurea magistrale in maniera addirittura fluente e specialistica? Seconda domanda. Visto che nelle facoltà economiche – le due triennali e quella magistrale – gli insegnamenti linguistici sono stati eliminati, come e dove gli studenti acquisiranno quella conoscenza fluente e specialistica? Nelle scuole private, forse? A proprie spese? Nel profondo sud? E, al momento della verifica finale che precede il conseguimento della laurea magistrale, le lobby accademiche interessate ignoreranno il problema pur di evitare rogne? Oppure provvederanno ad accertare quella effettiva conoscenza come da obiettivo formativo, rischiando, così, di bloccare la stragrande maggioranza delle lauree? Conosciamo bene la logica pedestre di chi ha ispirato l’epurazione degli insegnamenti linguistici dalle facoltà economiche o, tutto al più, inventandosi insegnamenti di lingua inglese con criteri che consapevolmente “obbligano” la non frequenza o per altri e dolosi fini mirati a colpire docenti ‘scomodi’. Vivendo solo di interessi, i propri, quelle mini ma influenti lobby accademiche si giustificano dicendo che l’inglese è un problema dei diretti interessati, cioè degli studenti. Ma, allora, se così è, che senso ha obbligarli, signor ministro, a studiarlo anzitempo nelle primarie e nelle secondarie, senza poi estendere e a maggior ragione lo stesso obbligo all’università, con il rischio concreto di bruciare gli investimenti dello stato nella formazione obbligatoria delle dai sei ai diciotto anni? Ritiene lei, signor ministro, che tutte le facoltà economiche italiane (salvo le migliori) attiveranno comunque quegli insegnamenti linguistici essenziali in virtù della loro autonomia? Scherza? Come farebbero poi a dividersi la torta per quattro invece che per cinque? Vuole un esempio della strafottenza culturale di certe facoltà economiche del profondo sud? Oggi come oggi, perfino là dove già esistono cattedre e docenti di ruolo di lingua inglese, alcune facoltà di economia campane non solo sono incapaci di utilizzare quelle risorse interne; ma, in taluni casi, preferiscono raddoppiare la spesa pubblica, devolvendo decine di migliaia di euro l’anno a strutture linguistiche collaterali, invece di avvalersi delle risorse disponibili. Con un vistoso duplice danno erariale. Pensa che il Procuratore della Corte dei Conti possa mai condividere questa impostazione? E con lui il ministro della Funzione Pubblica? Ci sono, signor ministro, facoltà economiche campane che, in virtù della riforma in atto, hanno anticipato i tempi del caos. Come? Abusando stoltamente e proditoriamente, ai limiti indecenti del malcostume, del potere dei numeri interni, pur di distruggere con consapevole protervia il lavoro ultradecennale di aree linguistiche per nulla inclini a bieche logiche locali. Come? Inventandosi inattesi ‘regali’ di migliaia di crediti formativi concessi scriteriatamente (se, dolosamente, per favorire strutture private, questo dovrebbe accertarlo una magistratura inquirente purché specializzata in cose accademiche); così come ignorando (artatamente?) il rispetto dei propri deliberati in termini di rigorosa applicazione dei criteri ufficialmente assunti, violentando il dovuto processo formativo di intere generazioni di studenti, con conseguenze spaventose per loro. Ci sono facoltà economiche campane, signor ministro, che, nelle commissioni di profitto di lingua straniera, hanno defenestrato i propri legittimi docenti – legittimamente pagati da questo stato – sostituendoli con gente estranea all’università o, a seconda dell’umore, con docenti della stessa facoltà privi dei requisiti di legge. Roba da prima pagina di giornali non asserviti a scuole di giornalismo! E’ tuttora ricorrente il caso di professori di quelle facoltà economiche campane esclusi dalle commissioni di quegli stessi esami di profitto della propria disciplina perché “non ordinari”, ma “solo” associati. Per essere sostituiti, poi, da chi? Da professori ordinari di altre facoltà, ma privi degli previsti titoli accademici richiesti dalla legge. Panzanate del genere fanno ridere interi pollai e piangere coloro i quali, a suo tempo, hanno conferito lauree in giurisprudenza ai maldestri protagonisti di questa italica baldoria del “Faccio come mi pare, me ne sbatto e, perciò, nomino chi voglio. Tanto sono immune dalla legge, avendo ricevuto l’input dal mio boss, che è più in alto di me!”Questo ed altro, signor ministro, avviene oggi in certe facoltà economiche italiane del profondo sud, evidentemente ubriache di anarchia, di sfrenata ambizione, di delirio di onnipotenza, di consapevole impunità.