La sconfitta dell’ educazione

 

Giovanna Rezzoagli

La scuola non è solamente il luogo in cui si dovrebbero imparare le varie discipline, è anche il luogo in cui si dovrebbe imparare a convivere in un primo contesto di socialità. Dovere è un verbo “forte”, ma troppo spesso si sorvola sull’imprescindibilità del ruolo di comunità educante ricoperto dalla scuola. Le motivazioni sono molte: si passa dalla scarsa retribuzione degli insegnanti alle problematiche connesse all’integrazione di studenti stranieri, passando attraverso il bullismo e le normative ministeriali in continua evoluzione. Troppe volte si sorvola anche su di una realtà tanto semplice quanto banale: la scuola è fatta da persone. In sociologia si divide il processo di socializzazione del bambino in due fasi: la socializzazione primaria e quella secondaria. La socializzazione primaria avviene durante i primi anni di vita nell’ambiente familiare, fondamentale il ruolo dei genitori sia per quanto concerne lo sviluppo fisiologico che per quello affettivo del bimbo, che si prepara ad affrontare il mondo esterno. La socializzazione secondaria avviene ad opera di tutte le comunità sociali in cui il bambino si troverà inserito al di fuori della propria famiglia, dalla scuola al circolo sportivo, per poi progredire nella vita adulta in tutti i contesti sociali di relazione. Proprio come non si finisce mai di imparare, allo stesso modo non si finisce mai di confrontarsi con gli altri nella società. Cosa succede quando un’ esperienza ha conseguenze negative sul bambino? La risposta è molto difficile perché i parametri variano moltissimo, ma una certezza rimane: se la famiglia ha saputo trasmettere valori concreti e ha saputo offrire al piccolo dei riferimenti affettivi stabili, il bambino svilupperà atteggiamento di apertura verso il mondo esterno. Parimenti se la scuola (in primis) ed il contesto di socializzazione secondaria avranno saputo confermare ed/od offrire al giovane un modello educativo improntato al rispetto ed alla valorizzazione delle singole qualità umane, lo sviluppo del giovane adulto sarà di gran lunga supportato anche di fronte alle inevitabili delusioni della vita. Questa lunga premessa per poter configurare i termini di gravità di un  paio di episodi, di cui uno accaduto tre anni or sono (e di cui ho conoscenza diretta), l’altro riportato questa mattina nella sezione “cronaca” del TGCOM Mediaset. Primo episodio: luogo una scuola media statale di Borzonasca (GE). Il figlio dodicenne di una stimata psicologa originaria del Trentino Alto Adige trasferitasi per lavoro in Liguria viene pesantemente offeso dai compagni di classe in quanto “straniero”. Molto bravo a scuola, con l’unica colpa di portare i capelli lunghi, piuttosto prevedibilmente apostrofato come “gay”. Epilogo, i genitori ritornano in Trentino, stranieri in patria. Secondo episodio: “Insultato, bambino via dalla scuola”. Luogo dei fatti una scuola media di Treviso. Un bambino di 12 anni subisce per un intero anno scolastico insulti ed angherie per il fatto di essere napoletano. Il piccolo perde l’anno scolastico ed i genitori decidono di cambiargli scuola. Con grande dignità la madre ha raccontato: “C’era una situazione non serena, e il rendimento di mio figlio ne ha risentito, ma sulla bocciatura non dico nulla, se non ha studiato è giusto”. Chi è genitore ben dovrebbe essere consapevole di quanto influisca la situazione psicologica di un bambino non solo sul rendimento scolastico, ma anche sul comportamento in generale. Credo sia legittimo chiedersi dove fossero i docenti quando questo bambino veniva apostrofato come “figlio di  camorrista”. Quanto siano costate al contribuente (anche di Napoli) le lavagne consumate da questi docenti a furia di scrivere  dando le spalle alla loro classe per non aver mai notato i loro alunni che disinfettavano le penne prestate al compagno “diverso”,con l’elegante pretesto in base al quale ciò che da lui era toccato, poi puzzasse, non è dato saperlo. Non è dato sapere nemmeno se questa scuola abbia assolto la propria funzione formativa, ma non pare azzardato ipotizzare che la propria funzione educante la abbia miseramente fallita. L’amaro in bocca è dato dal finale della storia: il bambino cambia scuola. Naturalmente la scuola non cambia, e giammai punire i compagni di classe, resterebbero traumatizzati. Il loro compagno tanto è “soltanto” uno straniero.  Sono storie purtroppo comuni, che si alimentano di pregiudizi, ignoranza e colpevoli assenze. Di silenzi indifendibili di genitori, docenti ed istituzioni. Sono il frutto di un pesante fallimento nell’educazione, di un ciclo di incapacità che si autoalimenta nella cultura di spregio del diverso. Alla fine non conta nemmeno più la diversità, conta avere un capro espiatorio. La storia non insegna le sue lezioni  chi non le ascolta. Siamo italiani di nome ma non di fatto.